La «Santa Estasi» di Latella e dei suoi discepoli

Federica Rosellini, Marta Cortellazzo Wiel, Mariasilvia Greco, Barbara Mattavelli, Ilaria Matilde Vigna e Barbara Chichiarelli in una scena di «Elena» (foto di Brunella Giolivo)

Federica Rosellini, Marta Cortellazzo Wiel, Mariasilvia Greco, Barbara Mattavelli, Ilaria Matilde Vigna e Barbara Chichiarelli in una scena di «Elena» (foto di Brunella Giolivo)

MODENA – «Proprio la memoria del senso tragico diventa centrale, mi ricorda che studiare il passato offre materiale vivo per i processi creativi del presente, e la culla di questa possibilità è la scuola, oggi vittima di uno scempio criminale che gradualmente vorrebbe mutilarla del mondo antico. Materia viva, vitale, sempre giovane, che aspetta nei secoli di essere scoperta».
Sono le ultime righe delle note di Linda Dalisi relative al suo testo, «Crisòtemi», che chiude «Santa Estasi – Atridi: otto ritratti di famiglia», il progetto firmato da Antonio Latella nell’ambito del Corso di Alta Formazione della Fondazione Emilia Romagna Teatro. E ben a ragione possiamo assumerle come epigrafe di un’operazione che, lo dico subito, risulta poderosa e pure agile, e insieme profonda e impegnativa senza dimenticare, tuttavia, salutari parentesi di divertimento. Ma, per cominciare, ecco qui di seguito i dati di cronaca.

Linda Dalisi e Antonio Latella

Linda Dalisi e Antonio Latella

Attraverso provini a cui hanno partecipato 535 (cinquecentotrentacinque) candidati, sono stati scelti sedici attori (Alessandro Bay Rossi, Barbara Chichiarelli, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Mariasilvia Greco, Christian La Rosa, Leonardo Lidi, Alexis Aliosha Massine, Barbara Mattavelli, Gianpaolo Pasqualino, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino, Emanuele Turetta, Isacco Venturini, Ilaria Matilde Vigna, Giuliana Vigogna) e sette drammaturghi (Riccardo Baudino, Martina Folena, Matteo Luoni, Camilla Mattiuzzo, Francesca Merli, Silvia Rigon, Pablo Solari), i quali ultimi – con l’assistenza di tre «tutor», lo stesso Latella e i suoi due drammaturghi stabili, appunto la Dalisi e Federico Bellini – si son fatti carico dell’adattamento delle celeberrime tragedie che giusto all’orrenda saga iniziata da Atreo si riferiscono.
Ne son venuti fuori sette (più «Crisòtemi») spettacoli che, tutti con la regia di Latella, si replicano fino al 12 giugno nel Teatro delle Passioni di Modena: «Ifigenia in Aulide» (da «Tieste» di Seneca e «Ifigenia in Aulide» di Euripide) di Francesca Merli, «Elena» (da «Le Troiane» ed «Elena» di Euripide) di Camilla Mattiuzzo, «Agamennone» (da Eschilo) di Riccardo Baudino, «Elettra» (da Euripide) di Matteo Luoni, «Oreste» (da Euripide) di Pablo Solari, «Eumenidi» (da Eschilo) di Martina Folena e «Ifigenia in Tauride» (da Euripide) di Silvia Rigon.
Ebbene, direi che ciò che distingue il progetto di Latella e accomuna i testi e gli spettacoli in cui lo stesso si è tradotto può essere riassunto con tre parole: reattività, radicalità e lucidità. E queste sono, poi, anche le parole che concorrono a formare il giudizio ampiamente positivo che sull’operazione nel suo complesso non esito ad esprimere.
Parlo della reattività come capacità di trovare nuovi stimoli in un materiale drammaturgico inscritto in una classicità persino proverbiale e, dunque, in sé autosufficiente; della radicalità come capacità di spingere a un estremo ulteriore quanto è già estremo di suo; e della lucidità come capacità di cogliere i rapporti fra l’antico (ciò che siamo stati) e il contemporaneo (ciò che siamo o ci avviamo ad essere). E faccio, al riguardo, l’esempio di «Tieste».
La tragedia di Seneca viene ridotta (ecco la radicalità) al tremendo dialogo fra Atreo e Tieste. Tutto il resto – l’ombra di Tantalo, la Furia, il Messaggero, il Cortigiano, il Coro dei Micenei – sparisce, e restano solo, per un brevissimo tratto, i figli di Tieste, Tantalo e Plistene, che qui raccontano in prima persona quanto nel testo senechiano è raccontato, appunto, dal Messaggero: col che, ripeto, si va all’estremo dell’estremo sul versante di quel radicalismo che per suo conto Seneca, come sappiamo, non s’era peritato di spingere fino al Grand Guignol.
Per giunta, tanto estremismo si trasferisce sul piano del linguaggio, toccando un’insistente coprolalia; mentre lo scatto geniale è il passaggio da «Tieste» ad «Agamennone», quando Atreo si veste da Agamennone: così s’invera in maniera lancinante ciò che lo stesso Atreo aveva detto a Tieste circa il desiderio nutrito da quest’ultimo di un delitto come il proprio (l’imbandire al padre le carni di Tantalo e Plistene) impedito dal fatto che i figli erano suoi. In altri termini, Atreo, diventando Agamennone, diventa il Tieste, da lui immaginato, che compie quel delitto. E questo rimanda – giusto lo scarto verso la contemporaneità – a «Sorveglianza stretta» di Genet: uno dei cui temi, se non il Tema in assoluto, è costituito per l’appunto dal desiderio spasmodico di Maurizio e Lefranc di porsi alla stessa altezza di Occhiverdi nel delitto.

Da sinistra, Federica Rosellini e Ilaria Matilde Vigna in una scena di «Ifigenia in Aulide» (foto di Brunella Giolivo)

Da sinistra, Federica Rosellini e Ilaria Matilde Vigna in una scena di «Ifigenia in Aulide» (foto di Brunella Giolivo)

Il rovescio della medaglia, poi, è l’intervento di un’ironia altrettanto esasperata. E basta citare, al riguardo, l’invenzione strepitosa che, nell’«Ifigenia in Aulide», mette in bocca a Ifigenia la battuta: «Guardami, papà, sono la tua piccola foca con il mondo sul naso. È così difficile tenerlo in equilibrio, anche per un naso come il mio. L’hai sentita, papà, è una foca triste. Dille qualcosa. Addormentala. Lanciale un pesce».
Siamo arrivati addirittura sulla pista del circo. E a rincarare la dose viene la didascalia reiterata che prescrive a Ifigenia di fare, appunto, il verso della foca: ciò che conduce alla ribalta, insieme, la demitizzazione e un’oltremodo efficace sottolineatura per contrasto della situazione terribile di quel padre, Agamennone, che si appresta a sacrificare la figlia prediletta in nome dell’interesse politico e militare.
Un’altra invenzione strepitosa – quella dell’Oreste che dice due volte: «Non voglio crescere» – rimanda invece al Pinocchio di Carmelo Bene. E dunque non per pura coincidenza Latella si appresta a mettere in scena, al Piccolo di Milano, uno spettacolo centrato giusto su Pinocchio: sicché «Santa Estasi» finisce a volgersi in una presa di coscienza del dovere morale di opporsi all’omologazione corrente, di modo che tanti spaventosi delitti e tanto sangue innocente versato nei remoti palazzi degli Atridi diventano, oggi, qualcosa che cambia di segno, diventano, cioè, un segno d’alterità.
Torniamo, così, al teatro di Genet: che è un rituale di morte in cui spasima, comunque, l’affermazione della vita, sotto specie della consapevolezza di doverla spingere oltre la solitudine ontologica che ci porta troppo spesso – per parafrasare l’analisi di Sartre a proposito de «Le serve» – a non vedere negli altri che noi stessi lontani da noi. E tanto senza contare lo straniamento comico, dimostrato, per fare un esempio, dallo slittamento di senso che mette in campo Agamennone quando – in risposta a Menelao, il quale, a proposito della donna che ha scatenato la guerra, dice: «Si chiama Elena» – replica: «Si chiama Troia».
Come se non bastasse, lo slittamento di senso in questione si prolunga nello spettacolo che accoppia «Le Troiane» e, per l’appunto, «Elena». Elena ripete più volte: «Smettetela di dire che sono una tr…» per sbottare, finalmente, in uno «Smettetela di dire che sono una tragedia!!!». E contemporaneamente da una diventa addirittura un coro di Elene.
Mi sembra, davvero, un’invenzione non so se più intelligente o più divertente: perché, in un colpo solo, sottolinea il fatto che, giusto, l’«Elena» di Euripide è più vicina alla commedia che alla tragedia e – alludendo sarcasticamente quel coro di Elene alla trama (Paride non aveva rapito che un’immagine costruita dagli dei con un pezzo di cielo, mentre la vera Elena era stata portata da Ermes in Egitto) – la critica del mito che lo stesso Euripide mutuò nella circostanza da Gorgia e Stesicoro.
Questo serve a dire, peraltro, della coerenza strutturale che all’interno del progetto lega gli spettacoli fra loro. E infatti, sempre per fare un esempio, nell’«Agamennone» adattato da Riccardo Baudino ricorrono insieme, e in maniera icastica ed eclatante, il bisogno di riscoprire la memoria sottolineato dalla Dalisi, la radicalità, lo slittamento di senso e il virare verso la comicità straniante: il coro adotta, in rapida successione, un ampio brano del testo greco originale e un altrettanto ampio brano di quel testo tradotto in latino; gli eroi sfociano nell’«eroina»; e, al coro stesso che gli ha chiesto: «Annuntias alia perniciosa?», l’araldo risponde: «Ego… Non annunzia pernici… non sum lexitor di ali o uccelli».

Andrea Sorrentino, Barbara Mattavelli, Marta Cortellazzo Wiel, Mariasilvia Greco e Christian La Rosa in una scena di «Oreste» (foto di Brunella Giolivo)

Andrea Sorrentino, Barbara Mattavelli, Marta Cortellazzo Wiel, Mariasilvia Greco e Christian La Rosa in una scena di «Oreste» (foto di Brunella Giolivo)

Fa il paio, tale battuta, con quella che si sente nell’«Oreste» adattato da Pablo Solari: «Riusciranno i nostri eroi a farla franca? O sarà Franca a farsi…». Sono battute che, sul filo del «nonsense», s’inscrivono nel più gaglioffo, sbrindellato e, pure, sapientissimo avanspettacolo.
Per contro, alla fine dell’adattamento di «Eumenidi», lo stesso Oreste esce dal testo per rivolgersi direttamente agli spettatori. Dice, in sintesi: «Io non sono meno reale sul palcoscenico di quanto non lo sia per strada. E non perché faccia un granché. Sono reale perché voi, tutti insieme, mi immaginate». E conclude: «Se volete un popolo intelligente, raccontategli delle storie. Se volete un popolo molto intelligente, raccontategli un sacco di storie!». Ed è proprio quel che fa «Santa Estasi».
Per quanto riguarda, poi, la regia di Latella, mi limito ad osservare che il suo pregio determinante sta nell’essere multiforme proprio come il variegato materiale drammaturgico che qui si affronta: nel senso che, con una strategia ad un tempo acutissima e disinvolta, cambia stile e aspetto per ciascuno degli otto spettacoli compresi nel progetto, aderendo come un guanto ai temi centrali che caratterizzano le singole puntate della saga.
Faccio, in proposito, due soli esempi, l’uno relativo al piano puramente spettacolare e l’altro alla dimensione concettuale. Il primo è quello di Elettra che balla col fantasma di Agamennone sull’onda di «Dance me to the end of love» di Leonard Cohen («Conducimi ai figli che chiedono di nascere»…); e il secondo è questo: mentre su un tavolo esplode la frenesia animalesca dell’Ifigenia che s’avvia ad essere trasformata in cerva da Artemide, tutti gli altri attori, schierati al proscenio, si voltano verso il pubblico e lo sommergono di sghignazzate: ciò che, d’accordo, attiene alla smitizzazione del proprio ruolo e di quanto stanno recitando, ma costituisce anche, e soprattutto, l’accusa agli spettatori di non essere capaci, oggi, di mettersi all’altezza delle vicende narrate.
In breve, l’impossibilità della tragedia, in precedenza (a partire da Ibsen e Pirandello) certificata sul piano drammaturgico come portato della crisi della società borghese, viene adesso certificata da Latella come puro e semplice portato della difficoltà di vivere. E tutto questo discorso si riassume, non a caso, nell’«Ifigenia in Tauride»: abbiamo bisogno di «corpi morti» (appunto i testi teatrali in sé) per attivare la vita (la messinscena di quei testi e il messaggio che dalla stessa si può trarre); mentre il riassunto del riassunto lo fa Linda Dalisi per l’appunto ridando voce a Crisòtemi, la sorella dimenticata di Ifigenia,

Yannis Ritsos

Yannis Ritsos

Elettra e Oreste che, prima, solo un poemetto di Yannis Ritsos aveva destato dal buio e dal silenzio dei secoli: «osserva quella stanza / quella stanza di sempre / circondata da altre stanze».
Non mi soffermo più di tanto, ora, sulla prova degl’interpreti. Sono persino commoventi: per il coraggio, l’abnegazione e la duttilità con cui attraversano la complessità dei materiali a loro affidati, senza l’ausilio dei radiomicrofoni e senza cadere nel benché minimo errore o nella più trascurabile esitazione pur recitando in quattro spettacoli diversi di fila.
Concludo. Ho letto tutti e otto i testi e ho visto tutti e otto gli spettacoli in due giorni consecutivi, quattro sabato e quattro ieri. E certo, non è stata una passeggiata. Ma me ne sono andato da Modena con una speranza e un dono: la speranza che – se ci sono giovani che hanno voglia d’imparare e maestri affermati che si mettono a loro disposizione aiutandoli ad imparare – per il teatro non tutto sia perduto; e il dono che mi hanno fatto le parole di Linda Dalisi, suscitandomi ricordi che – la vita essendo, tutto sommato, come il gioco delle scatole cinesi – si sono tenacemente incastrati l’uno nell’altro.
Prima ho pensato a Irene Papas, che in un albergo di Venezia, subito dopo che le avevano consegnato il Leone d’Oro alla carriera, mi disse con le lacrime agli occhi: «Sono vicini all’uomo, i personaggi della tragedia greca. Stanno lì da sempre, in attesa dell’uomo. Non si muovono, non cambiano, non ci guadagnano niente. Ci guadagna l’uomo, ad avvicinarli». Poi ho pensato a Rosa Di Lucia, che se ne andò presto portandosi nell’anima le parole della Crisòtemi di Ritsos. E infine mi son ritrovato in una lontana sera ad Atene, in una casa bianca tappezzata di libri davanti al Partenone.
In quella sera, in quella casa, Yannis danzò con incredibile leggerezza tra il severo impegno dell’intellettuale schierato contro i colonnelli e la gioia fanciullesca del cuoco intento a preparare un coniglio alla maniera greca. Discorsi sommessi e frenetici andirivieni si rincorsero fra la tavola imbandita in terrazza e la cucina nel cortile, la politica e il vino cantarono insieme il rapido volo della fraternità. E mi parve che davvero si facesse carne e sangue il tratto unico e altissimo della poesia di Ritsos: lo scambio continuo tra il mito e la quotidianità, lo strenuo alternarsi tra il pudore del silenzio e lo splendore della parola, l’estremo amplesso tra il sogno del passato e l’angoscia tranquilla del presente.
Sono, come si vede, le stesse cose che ricorrono nei testi e negli spettacoli di «Santa Estasi». E già, capita ancora che il teatro sia capace di qualche miracolo. Il miracolo, per esempio, di ridestare una sera lontana immersa nella dura lotta ma, pure, attraversata da un palpito di ridente dolcezza.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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2 risposte a La «Santa Estasi» di Latella e dei suoi discepoli

  1. Anna Maria Laville scrive:

    Gentile prof,
    questa volta non commento ma voglio solo esprimere la mia commozione,
    perché il finale di questo lungo articolo (sapiente come sempre, attento e partecipe come sempre) mi ha dato come un balzo emotivo con il suo ricordo di Ritsos, poeta che sopra tutti i greci contemporanei amo e porto nel cuore, come “O Thiasos” di Angelopoulos o le opere più forti di Kounellis che ne sono il riverbero visivo… E anche il ricordo di tempi in cui la dura lotta era nitida e tersa, e perciò poteva essere intrisa di dolcezza…
    Grazie!
    Anna Maria Laville

  2. Enrico Fiore scrive:

    Sono io che ringrazio Lei, gentile Anna Maria: poter condividere il ricordo di certe persone e di certi eventi con lettori che hanno la Sua sensibilità culturale costituisce per me – nei tempi bui che attraversiamo – la spinta decisiva a non avvilirmi.
    A presto.
    Enrico Fiore

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