ROMA – Perché Peter Brook, novantunenne, ha deciso di tornare trentuno anni dopo a quel «Mahabharata», il suo spettacolo più celebre ed emblematico, che nell’85 letteralmente sconvolse, e per nove ore di fila, il Festival di Avignone? Questa la domanda che ci si pone di fronte a «Battlefield», lo spettacolo – ricavato per l’appunto dal «Mahabharata», con l’assistenza di Marie-Hélène Estienne, sulla base del testo di Jean-Claude Carrière – che è ora all’Argentina nell’ambito del progetto, «Mondi in scena», varato dal Teatro di Roma per individuare una strada fra i valori, le identità e le storie di un oggi in continuo movimento.
Ovviamente, il motivo è lo stesso che spinse il grande regista anglo-francese ad affrontare la prima trasposizione teatrale di quello che è il più lungo poema epico della letteratura universale (18 libri per complessive 110.000 strofe, qualcosa come sette volte e mezza l’Iliade e l’Odissea messe insieme). E lo dichiarò proprio Brook, del resto: rappresentando la visione di una società lacerata sul ciglio dell’autodistruzione, il «Mahabharata» costituisce, sia pure in chiave mitologica, una prefigurazione della realtà corrente. Infatti, a proposito di «Battlefield», Brook dice adesso: «Il nostro vero pubblico sono Obama, Hollande, Putin e tutti i presidenti».
Ma a questo punto, per capire sino in fondo tale affermazione e gl’intenti che presiedono a «Battlefield» (il titolo significa, altrettanto ovviamente, «campo di battaglia»), occorre riandare a ciò che è, in sé, il «Mahabharata», letteralmente «La storia della grande lotta dei Bharata». Il poema, attribuito dalla tradizione al leggendario personaggio Vyasa, narra lo scontro lunghissimo (dura diciotto giorni) e sanguinosissimo (provoca «dieci milioni di morti») fra i violenti Kauravas, i figli della tenebra, e i loro cugini esiliati Pandavas, i figli della luce. Però, ben al di là della trama, conta il fatto che nel «Mahabharata» si fondono, con il mito, la religione, il dibattito morale, la riflessione filosofica e la dottrina politica.
Perciò il monumentale allestimento di Brook poté ambire (e di fatto riuscire) ad essere un’«imago mundi»: in ossequio alla massima («Il teatro concentra la vita») su cui spesso il regista ama insistere. E se oggi, in margine a «Battlefield», Brook osserva che il tremendo risultato della lotta fra i Bharata «può far pensare a Hiroshima o alla Siria», vuol dire che il suo spettacolo, per parafrasare la massima citata, ambisce (e di fatto riesce) ad essere un autentico «theatrum mundi».
D’altronde, come suggerisce Krishna nel «Mahabharata», la vera lotta è quella che s’ingaggia con se stessi sul «campo di battaglia dell’anima». Di qui la presa di coscienza che dopo la carneficina elaborano entrambi i capi degli opposti schieramenti: il vincitore, Yudishtira, afferma: «La vittoria è una sconfitta», e lo sconfitto, il re Dhritarashtra, che ha perso tutti i suoi cento figli, confessa: «Avremmo potuto evitare questa guerra»; e di qui, per conseguenza, il monito rivolto da Brook ai «presidenti».
S’intende, poi, che tutto questo non poteva che inquadrarsi nel ben noto sistema espressivo che configura l’alto approdo del teatro brookiano: un sistema che non si affida a una consistenza letterararia, ma – per contro – a un impianto drammaturgico fortemente ritualizzato; e che, quindi, si traduce nella «povertà» dell’arredo scenico accoppiata con la straordinaria capacità di creare intorno agli scarni «segni» adottati un alone praticamente infinito di sensazioni e sentimenti: a partire, anche, dalle molteplici funzioni svolte dagli oggetti.
Non a caso, infatti, Brook accosta il «Mahabharata» all’«Amleto»: se nella sua «Tragédie d’Hamlet» quattro cuscini messi in piedi potevano alludere al monticello di terra accanto alla fossa scavata per Ofelia, qui una sciarpa avvolta intorno al collo di un attore può evocare un serpente e un drappo rosso steso in terra può diventare un verme. Mentre le panchette, le stesse che comparivano nell’allestimento dedicato al capolavoro shakespeariano, si trasformano volta a volta in giaciglio per morire o trono.
È perfettamente inutile, adesso, sprecare parole circa gli splendidi attori in campo, accompagnati dal percussionista Toshi Tsuchitori: Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba e Sean O’Callaghan forniscono un esercizio di stile nello stesso tempo raffinato e lineare.
Al termine della «prima», il commissario straordinario di Roma Capitale, Francesco Paolo Tronca, e il direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, hanno consegnato a Brook l’alta onorificenza della Lupa Capitolina. E il maestro ha ringraziato, commosso, rivolgendo alla platea dell’Argentina – tutta in piedi, stretta in un applauso che non voleva finire – un breve discorso in italiano per dire, in sostanza, che il teatro è il cuore dei rapporti fra gli uomini. E tutto si tiene, allora. Nel saggio «Lo spazio vuoto», così Peter Brook tracciò la sintesi di quel che il teatro è per lui: «Posso prendere un qualsiasi spazio vuoto e chiamarlo palcoscenico vuoto. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre qualcun altro lo guarda, e questo è tutto ciò di cui ho bisogno perché si inizi un atto teatrale».
Enrico Fiore