La miseria del teatro italiano

Franco Cordelli

Franco Cordelli

NAPOLI – Mi riferisco per l’ennesima volta agl’imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti e ai loro complici, gl’intellettuali tuttologi di complemento: gli uni e gli altri impegnati, in una bella gara, a riempirsi la bocca delle parole «Teatro Nazionale», come se costituissero una formula magica capace di trasfigurare la realtà. E li invito a leggere la recensione che del «Re Lear» in scena al Mercadante ha scritto Franco Cordelli ed è stata pubblicata oggi dal «Corriere della Sera».
Per la verità, più che di una recensione si tratta di un grido di dolore. Scrive Cordelli che, mentre vedeva quello spettacolo, gli sono venuti in mente i «cattivi pensieri» di cui parlò in una lontana (e pur felice) stagione un critico della statura di Sandro De Feo: i «cattivi pensieri» che «riguardano il teatro italiano nel suo complesso». E aggiunge, Cordelli: «Due anni fa, in primavera, ne constatavo la povertà: nella scelta dei testi, dei registi, degli attori. La povertà dell’offerta. Oggi, dopo la famosa legge, se ne può constatare non la povertà ma la miseria».
Il critico teatrale del più importante quotidiano italiano così conclude, parlando del Mariano Rigillo protagonista dello spettacolo in questione: «[…] alla fine, quando è solo nel deserto (nella landa), e quando capisce, quando Cordelia è priva di vita tra le sue braccia, in quel momento non ci sono equivoci possibili. Nessuna malizia, nessun trucco da vecchio attore. Lear è Lear. Ma anche Mariano Rigillo è Mariano Rigillo, protagonista di Lear per un teatro in miseria, da tutti abbandonato».
Io credo che questo di Franco Cordelli sia un articolo non solo giusto, ma puramente e semplicemente nobile. E non lo dico perché l’articolo medesimo risulta in piena sintonia con la mia analisi dell’allestimento di «Re Lear» in parola, né perché a Cordelli mi legano rapporti di stima e amicizia fin da quando lavoravamo insieme a «Paese Sera»: fin da quando, cioè, scrivevamo entrambi una storia – quella del teatro di ricerca italiano, e per intenderci dei vari Neiwiller, Martone e Servillo – che non ci avevano raccontato e non avevamo guardato dal buco della serratura, ma ci aveva visti, insieme con il caro e indimenticabile Beppe Bartolucci, in veste di coprotagonisti e finanche, per certi versi, di veri e propri «autori».
Oggi è facile – agl’imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti e ai loro complici, gl’intellettuali tuttologi di complemento – cianciare da orecchianti di faccende ormai acclarate. Ma allora, quando era questione di schierarsi al buio per pratiche artistiche e giovani artisti delle quali e dei quali non si sapeva niente, nessuno di loro (o dei loro predecessori) era presente, né di persona, sui luoghi degli eventi, né come cronista, sulle pagine dei giornali. E ancora tacciono: stavolta perché si son tranquillamente acconciati al ruolo di notai dell’esistente in cambio (anche qui) della miseria, quella di piccole prebende elargite dai piccoli potenti di turno.
Si vergognino. E si vergognino, con loro, quanti gli danno spazio su gazzette e gazzettini. Non è solo un problema d’ordine morale, è un problema che attiene al mancato rispetto di quella che in tempi preistorici si chiamava deontologia professionale e, assai più concretamente, a un mancato rispetto della verità dei fatti che si traduce in un sempre più drammatico calo del numero delle copie vendute.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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