Quel sipario sconfitto dalla lama delle parole

 

Toni Servillo nei panni del guappo di «Rasoi» (foto di Cesare Accetta)

Toni Servillo nei panni del guappo di «Rasoi» (foto di Cesare Accetta)

Si è svolto oggi pomeriggio, nel Piccolo Bellini, il primo degli incontri con Mario Martone programmati nell’ambito della rassegna «Carmen e i suoi fratelli». Parliamo di tre film che a vario titolo interagiscono, appunto, con «Carmen», lo spettacolo di Martone che, su testo di Enzo Moscato, è in scena nella sala grande del Bellini fino a domenica. Il film proiettato oggi pomeriggio, «Rasoi», è tratto dall’omonimo spettacolo teatrale basato ancora su testi di Moscato. Domani, alle 17, sarà la volta di «Un posto al mondo». E infine, domenica alle 16, toccherà a «I dieci comandamenti». Ho pensato di commentare l’incontro di oggi ripubblicando qui la recensione di «Rasoi», datata 25 maggio 1991 e che venne, fra l’altro, compresa nel mio volume «Mar del teatro», pubblicato da Pironti nel 1999 con scritti introduttivi degli stessi Martone e Moscato, che per l’occasione compose un poemetto intitolato «Utinam», oltre che di Maurizio Scaparro. (E.F.)

ROMA – Mentre il sipario chiuso si gonfia sotto l’urto di una tregenda di suoni e voci che mescola fragori di traffico, invettive di vicolo, rombar di tuoni e scrosciar di pioggia, ecco Enzo Moscato che, appollaiato su un sediolone impagliato e montato su rotelle, si tappa le orecchie nell’inutile tentativo di non ascoltare. Poi caccia un urlo disperato e, immediatamente dopo, si perde nel canto immemore di «Simmo ‘e Napule, paisa’». E contemporaneamente il sipario, restando sempre chiuso ma arretrando lentamente, comincia a risucchiarlo.
È la sequenza iniziale di «Rasoi», lo spettacolo basato per l’appunto su testi di Moscato e presentato da Teatri Uniti l’altra sera, in «prima» nazionale, al Valle di Roma. E potrebbe bastare da sola a illustrare e riassumere i contenuti, le forme e i ritmi dell’allestimento: infatti, siamo di fronte, insieme, a un feroce (e pure, a tratti, connotato da un irresistibile umorismo) incontro-scontro con la tradizione e a una sorta di «serata d’onore» per lo stesso Moscato.

Enzo Moscato

Enzo Moscato

Dunque, torna ancora una volta il fascino torbido e inquietante del barocco degradato che distingue impareggiabilmente la scrittura di questo nostro straordinario autore: e torna, soprattutto, l’implacabile capacità di ferire di parole che – davvero affilate come lame di rasoio – respingono qualsiasi tentazione di bozzettismo realistico per rivelarsi e atteggiarsi, in una dimensione dichiaratamente metaforica, come una difesa a oltranza contro quello che, del realismo, è soltanto l’aspetto evasivo o, peggio (e specialmente quando si tratta di Napoli), lo sfruttamento consumistico da parte dei «mass media».
Di conseguenza – ed è questa la splendida idea su cui si regge la regia di Mario Martone e Toni Servillo – lo spettacolo in sé procede per programmatici e reiterati ribaltamenti di piani: di cui costituisce un decisivo esempio per l’appunto l’alternarsi ai testi di Moscato (gl’inediti frammenti in versi intitolati giusto «Rasoi», i brani «Rondò», «Palummiello», «Re Bomba» e «’A nuttata è passata» estrapolati da «Partitura» e il delirio lirico, altrettanto inedito, intitolato «Litoranea») di «classici» della canzone napoletana (oltre a «Simmo ‘e Napule, paisa’», «’O paese d’ ‘o sole», «Oj Mari’» e «Ll’urdema canzona mia»). Giacché, mentre in quelle canzoni si finge di rifiutare il passato per affermare il presente e invece nel passato di fatto ci si rifugia (sul filo della nostalgia), qui avviene esattamente il contrario: si finge di affermare il passato per rifiutare il presente e invece nel presente di fatto, e strenuamente, si affonda (sul filo della passione, nel senso etimologico del termine).

Mario Martone

Mario Martone

Vedi, in proposito, il racconto della violenza carnale su Palummiello affidato alla Madonna (che compare come una statua proveniente da una delle «proverbiali» processioni di una volta, con tanto di veste bianca, mantello azzurro e aureola di lampadine accese) e, soprattutto, l’autentica esplosione finale di «Litoranea», in cui – mentre ai piedi del palcoscenico la pianista Manuela La Manna ripete ossessivamente, e invano (perché emblema di un avanspettacolo ormai impossibile), l’introduzione di «Guapparia» – l’attore di turno, addobbato per l’appunto con l’inconfondibile doppiopetto a righe dei «guappi» dell’oleografia, si lancia – con il non meno inconfondibile stile di un cantante «di giacca» della «sceneggiata» – in un vorticoso assolo, a un tempo iperbolico e surreale, che accumula, al contrario, ricercatissime «dissonanze» svarianti, tanto per fare qualche esempio, tra l’angiospermia, la Bibbia, l’estrogeno, l’algoritmo, Caruso, il mambo, i gameti, l’urea, Didone, Don Chisciotte, «’a purchiacca ‘e mare» e «’a purchiacca ‘e mammeta fetente».
L’ultimo «spiazzamento» ironico, poi, è il fatto che quel «guappo» morirà, all’esplodere di tre colpi di pistola, «eseguendo» la propria morte au ralenti, come, giusto, in un’inesorabile parodia della «sceneggiata». E infine, la negazione totale e complessiva del teatro – in quanto rappresentazione e non meno «proverbiale» identità di Napoli – resta affidata, in maniera lancinante e indimenticabile, a quel sipario che arretra sempre di più, lasciando sparsi sul palcoscenico, davanti a sé, i vari personaggi: non elementi di una storia, ma solo detriti, relitti o ectoplasmi di un «sentimento» sterile.
Eccellenti, si capisce, anche gli interpreti: dal bravissimo Toni Servillo di «Litoranea» a Tonino Taiuti e, via via, Licia Maglietta, Marco Manchisi, Antonio Iuorio, Roberto De Francesco, Iaia Forte e Gino Curcione.E funzionalissimi le scene di Lino Fiorito e dello stesso Martone, i costumi di Metella Raboni, le luci di Pasquale Mari e il suono di Daghi Rondanini. Alla «prima» un diluvio di applausi e vere e proprie ovazioni al termine.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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