«Re Lear» diventa «la storia» di un Lear assimilato a Cristo

Mariano Rigillo nei panni di Re Lear (foto di Antonio Parrinello)

Mariano Rigillo nei panni di Re Lear (foto di Antonio Parrinello)

NAPOLI – Secondo Gabriele Baldini, il nostro maggior anglista, «Lear è soprattutto una struggente verità». E Jan Kott – che, al pari di Peter Brook, accostò «Re Lear» a «Finale di partita» e «Aspettando Godot» di Beckett – individuò il tema portante di quel testo nel «disfacimento» e nel «crollo» del mondo, scrivendo: «Nel Re Lear shakespeariano la scena resta vuota dal principio alla fine: non c’è nulla, all’infuori della terra crudele su cui l’uomo compie il suo viaggio dalla culla alla tomba».
Ecco, ancora oggi io credo che il senso meno aleatorio del capolavoro in parola possa trovarsi collegando (e facendo interagire fra loro) le due interpretazioni citate. Perché in questa – che, ispirata da fonti disparatissime, è l’opera più ricca e complessa, più articolata e misteriosa, più poetica e profonda, più tragica e impietosa di tutto il canone shakespeariano – la verità non può non identificarsi con la morte. E basta, in proposito, considerare l’espediente adottato dal Bardo per significare tale identificazione: attorno al vecchio re che sta (per davvero!) piombando nella follia, compaiono un falso scudiero (il conte di Kent), un falso pazzo (Edgar) e un pazzo di professione (il Fool).
In breve, è la finzione che fa da cartina di tornasole per la realtà. E la realtà viene qui costituita per l’appunto dalla follia di Lear, che è follia autentica: tale, cioè, da porsi come condizione «propedeutica» alla morte dell’infelice sovrano e – insieme e soprattutto, lo sapevano bene i greci – come fonte di conoscenza (una conoscenza più alta, giusto la verità).
Insomma, «Re Lear» rappresenta, in sé, una metafora della vita. E in quanto tale, si traduce in un rito sapienziale estremo. Per questo il grande, indimenticabile Leo de Berardinis parlò di quella di Lear come di «una morte che è anche nascita di un uomo nuovo».

Anna Teresa Rossini è il Fool (foto di Antonio Parrinello)

Anna Teresa Rossini è il Fool (foto di Antonio Parrinello)

Siamo, dunque, in presenza dell’intrecciarsi di opposti, giacché di opposti è fatta, per l’appunto, la vita. E opposti, d’altronde, mescola pure la battuta riferita nel «Macbeth» a quelli «that go the primrose way to th’everlasting bonfire!»: quelli, tutti noi, che percorrono «il fiorito sentiero» della vita solo per arrivare al «falò eterno».
Ora, parrebbe che Giuseppe Dipasquale – responsabile (poiché, insieme, regista, adattatore del testo originale e scenografo) dell’allestimento di «Re Lear» che gli Stabili di Napoli e Catania presentano al Mercadante – abbia avvertito tale, decisivo problema degli opposti. Ma dico parrebbe perché, viceversa, nelle sue note lo riduce all’«ossimoro» dell’essere Lear «saggiamente dispotico, umilmente tracotante, euforicamente tragico».
Così spostiamo quel problema sul mero piano narrativo. Infatti Dipasquale intitola il suo allestimento «Lear, la storia». E in ossequio all’ossimoro (mi si passi l’allitterazione) affida la parte del Fool a una donna (Anna Teresa Rossini) e quelle di Regan e Goneril a due uomini (rispettivamente Luigi Tabita e Roberto Pappalardo). Ma, se per quanto riguarda la Rossini (compagna nella vita del protagonista Mariano Rigillo) l’invenzione di Dipasquale si spiega col fatto che nel testo di Shakespeare non c’è una parte femminile per lei, la stessa invenzione non si spiega in alcun modo per quanto riguarda Tabita e Pappalardo.
Rigillo ha dichiarato che s’è voluto «mettere in evidenza la virilità delle due donne». A me, però, non sembra – per fare un esempio – che Sabrina Capucci e Delia Boccardo, dirette da Ronconi, quella «virilità» non la esprimessero a dovere. E se lo stesso Rigillo, «Cicero pro domo sua», ha dichiarato anche che la Rossini attribuisce al Fool «nuance clownesche e circensi capaci di caratterizzare il personaggio con assoluta originalità», io non posso non ricordare (a prescindere dal pleonastico «circensi» accoppiato a «clownesche») che, sempre per fare un esempio, già nell’anno di grazia 1985 un signore che si chiama Glauco Mauri diresse un «Re Lear» in cui Roberto Sturno era un Fool che del «clown» (il termine, dovrebb’essere noto, nell’età elisabettiana costituiva per l’appunto un sinonimo di «fool») aveva non le «nuance», ma addirittura il costume.

Silvia Siravo nel ruolo di Cordelia (foto di Antonio Parrinello)

Silvia Siravo nel ruolo di Cordelia (foto di Antonio Parrinello)

Comunque, l’invenzione più strepitosa di Dipasquale è questa: appena s’apre il sipario vediamo Lear disteso su un letto-catafalco nell’esatta posizione del Cristo di Mantegna e, verso la fine, lo vediamo con in testa la corona di spine (o di sterpi) che a Cristo attribuisce la tradizione iconografica acclarata. E dunque il discorso viene trasferito nella dimensione della trascendenza, che pensavamo col Bardo non c’entrasse proprio. Non avevamo capito niente. E passi per me, che con l’età mi sono rincoglionito. Ma non avevano capito niente nemmeno Gabriele Baldini, Peter Brook, Jan Kott, Leo de Berardinis, Luca Ronconi e Glauco Mauri. Ha capito tutto Giuseppe Dipasquale.
Concludiamo. Mariano Rigillo fa del suo Lear un esercizio stilistico inscritto nel formalismo di scuola che a lui Rigillo compete da sempre. E gli è accanto un’Anna Teresa Rossini che, nei limiti di cui sopra, davvero non demerita, mentre debitamente dolce risulta nei panni di Cordelia sua figlia Silvia Siravo. Il resto, considerati pure i tagli robusti apportati al testo shakespeariano, si riduce a un raccontino molto scolastico. E non mi pare che, alla «prima» di ieri sera, le accoglienze siano state quel che si dice entusiastiche: solo intorno a me, nell’intervallo si sono completamente svuotate la fila di poltrone in cui sedevo io e le due davanti.
Come si sa, lo spettacolo viene dato senza le scene a causa dell’agitazione proclamata dai lavoratori dello Stabile di Catania, privi di stipendio da mesi e mesi. E prima dell’inizio, ritardato di un quarto d’ora, i loro colleghi dello Stabile di Napoli hanno letto un comunicato per denunciare anch’essi una situazione analoga. Agli uni e agli altri va la mia solidarietà piena e convinta. È la solidarietà di un comunista non pentito. E la precisazione va ai teatranti, agl’imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti e agl’intellettuali tuttologi di complemento che si sono riempiti la bocca delle parole «Teatro Nazionale», come se costituissero una formula magica capace di trasfigurare la realtà. Ma è sempre la struttura (l’economia) che influenza la sovrastruttura (il sistema culturale). Non accade mai – perché non può accadere – che la sovrastruttura influenzi la struttura. E infatti…

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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