Lo Stabile di Napoli, i giovani e la «riforma» di Franceschini

Il Mercadante, sede dello Stabile-Teatro Nazionale di Napoli

Il Mercadante, sede dello Stabile-Teatro Nazionale di Napoli

NAPOLI – Sul «Corriere del Mezzogiorno» di giovedì scorso Eduardo Cicelyn ha scritto fra l’altro: «Qualcuno conosce i numeri dei biglietti e degli abbonamenti venduti sotto la direzione De Fusco, presentato a suo tempo come l’uomo del botteghino? E si hanno informazioni sui privati catturati dal fascino del regista del “cambio di scena”, autentico divoratore di budget per i suoi spettacoli, e sui capitali finalmente penetrati (e quanti) nel CdA del Mercadante? Di bilanci veri, numeri alla mano, è impossibile parlare a Napoli. Pare che siano tutti allergici alla rendicontazione pubblica, direttori e presidenti di fondazioni e istituti interamente finanziati col denaro dei cittadini. Né, sia detto absit iniuria verbis, i media si danno molto da fare per pretendere dai responsabili dei diversi enti un’analisi supportata da dati certi delle loro performances amministrative».
Per ciò che attiene al discorso sui «media», non a caso insisto spesso sugl’imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti. Ma, per il resto, lascerei da parte le ironie e, in quanto critico, baderei meno ai numeri e più alla sostanza culturale delle cose. A partire, poniamo, dalla questione del rapporto fra i giovani e il teatro.

Luca De Fusco

Luca De Fusco

De Fusco, nel corso della conferenza stampa indetta a Roma per presentare la seconda stagione dello Stabile di Napoli-Teatro Nazionale, ha sostenuto che si è triplicato il pubblico tra i 18 e i 30 anni. E qui un piccolo dubbio sorge: per caso, a formare quel pubblico «triplicato» (dato e non concesso che esista davvero) concorrono anche le scolaresche deportate a teatro (e, ormai stabilmente, di sera, non più, come una volta, in occasione delle mattinate riservate per l’appunto alle scuole)?
Il fenomeno è talmente rilevante e diffuso che Thomas Ostermeier, uno dei maggiori registi di oggi, vi fa diretto e chiarissimo riferimento (come ho riportato in sede di recensione) addirittura nel suo allestimento de «Il gabbiano» di Cechov, coprodotto da mezza Europa e ospitato dallo Stabile di Torino nelle Fonderie Limone di Moncalieri: infatti, Ostermeier mette in bocca a Trepliòv una sarcastica requisitoria proprio contro la pratica di riempire le sale semivuote con le scolaresche, le quali, dunque, vengono trascinate a vedere ciò che gli altri non vogliono vedere e, perciò, si disgustano al punto che a teatro non torneranno più.

Walter Ferrara

Walter Ferrara

Senza contare che tale pratica non produce nemmeno un rientro apprezzabile in termini economici, se è vero che – come denunciano non pochi operatori teatrali di lungo corso, parlando senza remore di concorrenza sleale – si vendono agli studenti così deportati persino biglietti al prezzo stracciato di 4 (diconsi quattro) euro. E d’altronde, se fosse tanto in aumento il pubblico teatrale giovane, perché mai il nuovo presidente dello Stabile di Napoli, Walter Ferrara, dovrebbe annunciare (l’ha fatto il 22 marzo, nel quadro di un’intervista pubblicata sempre dal «Corriere del Mezzogiorno») un progetto per «portare a teatro i ragazzi, consentendo loro di pagare un biglietto pari a quello del cinema»?
Comunque, mi chiedo adesso (e me lo chiedo proprio nella mia veste di critico, con ben mezzo secolo di attività professionale alle spalle) quali stimoli dovrebbe fornire ai giovani il cartellone annunciato da De Fusco per la prossima stagione dello Stabile. Per carità, non voglio assolutamente negarne la qualità complessiva. Né trascuro la presenza che vi dispiegano registi e attori di livello. Ma si tratta, nella generalità dei casi, di teatro «ufficiale», paludato e ancorato a forme assai lontane dalla sensibilità, dalla cultura e dai gusti delle nuove generazioni.

Vittorio Lucariello

Vittorio Lucariello

Occorre aggiungere, però, che un cartellone del genere è il frutto non solo delle scelte del direttore dello Stabile, ma anche e soprattutto della cosiddetta «riforma» della prosa perpetrata dall’ex democristiano Franceschini (una «riforma» che, per l’appunto, privilegia il teatro di consumo a danno di quello di ricerca) e di una situazione storica che, per vari e complessi motivi, ha fatto di Napoli il fanalino di coda (adopero un generosissimo eufemismo) nel campo dell’innovazione della scena.
Gl’imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti di cui sopra, affiancati dai soliti intellettuali tuttologi, amano cianciare di Napoli come della «capitale del teatro italiano». Ma, lo ripeto ancora una volta, Napoli è stata «capitale del teatro italiano» solo in due circostanze: nei tempi preistorici della Commedia dell’Arte e alla fine degli anni Settanta, quando vennero alla ribalta i vari Neiwiller, Martone e Servillo. Oggi non è napoletano nemmeno uno dei principali gruppi italiani dediti al teatro di ricerca: né Raffaello Sanzio, né Marcido Marcidorjs, né Motus, né Babilonia Teatri, né Ricci&Forte, né Fibre Parallele, tanto per citare i nomi che al momento mi vengono in mente.
Rimane solo Vittorio Lucariello, asserragliato nello Spazio Libero, il suo bunker del Parco Margherita, come il famoso soldato giapponese che continua a nascondersi nella giungla perché non sa che la guerra è finita. Fuori di quell’enclave, non si parla più di teatro (voglio dire che non se ne parla seriamente, per ciò che potrebbe e dovrebbe essere al di là del mero intrattenimento). Si consuma solo, nei giornali e nei salotti, il rito tristissimo della diatriba sull’opportunità o meno di regalare 700mila euro al signor Al Pacino.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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4 risposte a Lo Stabile di Napoli, i giovani e la «riforma» di Franceschini

  1. Rosa Startari scrive:

    Confermo, se mai ce ne fosse bisogno, che anche al Piccolo milanese, oramai, le scolaresche arrivano la sera, il martedì di preferenza…
    Può anche andar bene e sperabilmente funzionare da stimolo alla nascita di un interesse giovanile per il teatro … Che aspettiamo pazientemente.
    Rosa Startari

  2. Enrico Fiore scrive:

    Già. La pratica di riempire con le scolaresche le sale semivuote dei teatri è ormai diffusa dappertutto. E non si tratta di una pratica commendevole, se persino un regista del livello di Thomas Ostermeier ha sentito il bisogno di criticarla, addirittura inserendo – come ho rilevato nel recensire lo spettacolo – un commento sarcastico contro di essa all’interno del suo allestimento de “Il gabbiano” di Cechov presentato di recente, alle Fonderie Limone di Moncalieri, dal Teatro Stabile di Torino. Tale pratica può essere giustificata solo nel caso che le scolaresche in questione vengano adeguatamente preparate (dagli insegnanti soprattutto) prima d’essere portate a teatro. Altrimenti vi saranno – come di fatto avviene oggi e come ripeto spesso – soltanto “deportate”. E l’effetto, contrariamente alla speranza che Lei manifesta, sarà sempre quello denunciato anche da Ostermeier: siccome si fa vedere agli studenti spettacoli (vecchi sia sul piano dei contenuti che sul piano dell’impostazione) che già il pubblico degli adulti ha rifiutato (lo dimostrano, appunto, le sale semivuote), i giovani ne resteranno delusi e, assai probabilmente, si faranno del teatro un’idea sbagliata, tale da spingerli a rifiutarlo anche quando saranno diventati a loro volta adulti.
    Voglia gradire, cara amica, i miei più cordiali saluti. E grazie, sempre, per l’attenzione che mi dedica.
    Enrico Fiore

  3. Francesco Amedei scrive:

    Vorrei tanto sapere dal Signor Fiore perché egli crede che per gli studenti possa essere lesivo (al punto tale da fargli odiare il teatro) vedere un gigante della scena quale è indubbiamente Rigillo o allestimenti di gran pregio come nel caso dell'”Orestea” (il successo di pubblico anche fuori Napoli ne è testimone).
    Francesco Amedei

  4. Enrico Fiore scrive:

    Egregio Signor Amedei,
    prima di abbandonarsi a simili commenti infondatamente e stupidamente polemici, dovrebbe avere la bontà e l’accortezza di leggere con più attenzione e costanza quanto da tempo vado scrivendo.
    Non ho mai sostenuto, ovviamente, che per gli studenti sia “lesivo” andare a teatro. Ho soltanto sostenuto che è controproducente (sino a determinare, per l’appunto, l’effetto di fargli odiare il teatro) l’andarci in veste di “deportati”, per imposizione dei loro insegnanti e senza essere dagli stessi adeguatamente preparati circa quello che vengono “deportati” a vedere. E che tanto accada (che, cioè, gl’insegnanti non preparino adeguatamente i loro studenti a vedere determinati spettacoli e che quindi, dopo aver visto quegli spettacoli, che non hanno capito, gli studenti medesimi siano portati a un rifiuto del teatro) è dimostrato dai discorsi che sento, normalmente, al termine delle “prime” a cui hanno partecipato le scolaresche in questione.
    Oltretutto, ripeto che tali scolaresche adesso non vengono più “deportate” a teatro di mattina, come accadeva un tempo (c’erano, giusto, le mattinate riservate alle scuole), ma di sera, al solo ed evidente scopo di colmare in qualche modo i vuoti in sala. E, ripeto anche questo, il fenomeno è tanto riprovevole e diffuso, pure all’estero, che uno dei maggiori registi di oggi, il tedesco Thomas Ostermeier, l’ha denunciato, esplicitamente, addirittura all’interno del suo allestimento de “Il gabbiano” di Cechov, coprodotto da mezza Europa e di recente presentato dallo Stabile di Torino, uno dei coproduttori, nelle Officine Limone di Moncalieri.
    Certo, le eccezioni sono possibili e auspicabili. Ma, in ogni caso, io ho sempre fatto un discorso di carattere generale, non mi sono mai riferito a singoli spettacoli o a singoli interpreti, come fa Lei sulla base di opinioni personali discutibili quanto (ci mancherebbe) tutte le altre opinioni, comprese le mie.
    Infine, mi permetto d’invitarLa a un più corretto uso della lingua italiana. Il “successo di pubblico anche fuori Napoli” dell'”Orestea” (peraltro, ne parla per sentito dire o per esperienza diretta?) non è una persona, avrebbe dovuto accoppiargli il termine “testimonianza” e non il termine “testimone”.
    Per concludere, mi auguro, egregio Signor Amedei, di aver soddisfatto il sacrosanto e pressante desiderio di “sapere” che ha manifestato, o, almeno, di averlo soddisfatto nella misura del possibile. E comunque, La ringrazio per l’attenzione e La prego di gradire i miei più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

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