Se «Il gabbiano» vola sul tassì di un siriano

 

Matthieu Sampeur in una scena de «Il gabbiano» diretto da Thomas Ostermeier (foto di Arno Declair)

Matthieu Sampeur in una scena de «Il gabbiano» diretto da Thomas Ostermeier (foto di Arno Declair)

MONCALIERI – Nell’introduzione alla sua prima edizione italiana (Einaudi, 1962), Cesare Cases collocò «Teoria del dramma moderno» di Szondi tra «le poche opere veramente utili alla comprensione della genesi e delle prospettive dell’avanguardia». Sono d’accordo. Personalmente considero quel saggio una sorta di Bibbia, lo cito sempre. E non posso, dunque, che prenderne le mosse anche nell’affrontare l’analisi dell’allestimento de «Il gabbiano» che – coprodotto dal Théâtre de Vidy-Lausanne, dal Teatro Stabile di Torino, dall’Odéon-Théâtre de l’Europe, dal Théâtre National de Strasbourg, da La Filature-Scène Nationale à Mulhouse, dal TAP-Théâtre Auditorium de Poitiers e dal Théâtre de Caen – è in scena ancora oggi e domani, per la regia di Thomas Ostermeier, nelle Fonderie Limone di Moncalieri.
Osserva Szondi: «Nei drammi di Cechov gli esseri umani vivono nel segno della rinuncia. Soprattutto li caratterizza la rinuncia al presente e alla possibilità d’incontrarsi; la rinuncia alla felicità in un vero incontro». E poi: «Rinunciare al presente significa vivere nel ricordo e nell’utopia; rinunciare a incontrarsi significa solitudine». E infine: il presente di quei personaggi, «ebbri di ricordi, che sognano il futuro», «è oppresso dal passato e dall’avvenire; è un intervallo, un periodo d’esilio, dove la sola meta è il ritorno alla patria perduta».

Thomas Ostermeier

Thomas Ostermeier

Ebbene, di tutto questo «Il gabbiano» costituisce, nell’arco della produzione di Cechov, uno degli esempi più compiuti e persuasivi. E basta, in proposito, riflettere anche solo per un momento sulla situazione che vi si accampa: Irina Arkàdina, contro l’età che avanza, s’aggrappa alla superficie del proprio status di diva del teatro «ufficiale»; lo scrittore Trigòrin, suo amante, si crogiola nel successo tra noia, ipocrisia e narcisismo; Sòrin, fratello di Irina, rimpiange continuamente la vita che gli hanno negato i ventotto anni trascorsi da consigliere di stato; Dorn avrebbe volentieri barattato la carriera di medico e di donnaiolo con il soffio creativo degli artisti; Mascia, rinunciando all’amore per Konstantín Trepliòv, figlio dell’Arkàdina, s’acconcia a sposare il grigio maestro Medvèdenko; Nina Zarècnaja, che sognava di diventare una grande attrice, a sua volta rinuncia all’amore di Trepliòv, si mette con Trigòrin e, da lui abbandonata, si riduce a recitare in provincia per dei volgari mercanti; e Konstantín Trepliòv, che sognava di diventare anche lui uno scrittore affermato, si uccide addirittura. Come aveva promesso di fare dopo aver abbattuto col fucile il gabbiano del titolo, simbolo dichiarato dell’utopia del volo – ossia dell’impossibile riscatto da quella vita larvale – in vario modo coltivata da tutti gli «antieroi» citati.

Sulla riva del lago di Cechov come in uno stabilimento balneare (foto di Arno Declair)

Sulla riva del lago di Cechov come in uno stabilimento balneare (foto di Arno Declair)

Siamo, come si vede, alla dissoluzione della forma (quella del realismo) che distingueva il dramma tradizionale; e, dunque, proprio all’anticipazione dell’avanguardia di cui scrisse Cases in merito al saggio di Szondi. E di qui, per l’appunto, il manifestarsi determinante del simbolo.
Il simbolo rappresenta, nel testo in parola, l’elemento concettuale ricorrente (è un vero e proprio leitmotiv) e decisivo. A cominciare dal lago che si trova nella tenuta di Sòrin: se ne parla dall’inizio alla fine, e risulta evidente oltre ogni dubbio che – fatto di un’acqua chiusa, che non ha scambi con altre acque – si pone come un equivalente, giusto simbolico, della solitudine dei personaggi in campo. E la battuta (sul serio una battuta-chiave) di Mascia, «Mi si è intorpidita una gamba»? Non allude, per l’appunto, alla vita ineffettuale che qui si dipana, l’«interminabile strascico» di cui parla la stessa Mascia? Senza contare che il gabbiano ucciso da Trepliòv viene per giunta impagliato e senza contare, soprattutto, il teatrino costruito per la recita della commedia scritta da Konstantín: fallita quella rappresentazione, rimane in piedi («mostruoso», lo definisce il semplice Medvèdenko) sotto specie della perenne illusione che l’arte possa garantire un risarcimento sull’esistenza.

Matthieu Sampeur e Mélodie Richard in un altro momento dello spettacolo (foto di Arno Declair)

Matthieu Sampeur e Mélodie Richard in un altro momento dello spettacolo (foto di Arno Declair)

Ora, non la faccio lunga: l’acume e l’inventiva della regia di Ostermeier penetrano in un simile impianto con un radicalismo apparentabile alla facilità con cui un bisturi penetrerebbe in un panetto di burro. E al riguardo basterebbe un solo esempio: il famoso lago – che, data la sua «natura» di simbolo, nel testo originale non entra mai direttamente nell’azione (al massimo lo s’intravvede confusamente sullo sfondo) – qui viene portato in primo piano mercé l’espediente di sostituire il campo di croquet dell’inizio del secondo atto con una piattaforma da stabilimento balneare, completa di sdraio e su cui si muovono personaggi che prendono il sole in costume o si spalmano di crema protettiva.
Ma, in pratica, non c’è scena in cui non deflagri un’idea che, insieme, rispetti, chiarifichi e potenzi il dettato di Cechov. Vedi, per fare un altro esempio, quella iniziale fra Mascia e Medvèdenko: si svolge dietro due microfoni, e a un certo punto l’attore che interpreta il maestro esce dal personaggio e in un italiano stentato (il cast è di lingua francese) si mette a raccontare il suo incontro con un tassista siriano che vive da vent’anni a Parigi. In tal modo, si denuncia la (voluta) teatralità del testo e, nello stesso tempo, lo si spinge (e con esso lo spettacolo) verso la nostra sensibilità e i nostri problemi di oggi.
Ugualmente, l’appassionato appello di Trepliòv in favore di «nuove forme» teatrali diventa nella circostanza una sarcastica requisitoria contro la cieca ripetitività e, in genere, i vizi diffusi che paralizzano il teatro corrente. In particolare, e persino in termini comici, si bolla la pratica di riempire le sale semivuote con scolaresche che, dunque, vengono deportate a vedere ciò che gli altri non vogliono vedere e, perciò, si disgustano al punto che a teatro non torneranno più.
Non s’era mai visto un teatrante che, come Ostermeier, avesse il coraggio di confessare sul palcoscenico la malattia (mortale, se non si corre ai ripari) di cui soffre la propria arte. Per questo – e faccio, così, l’ultimo esempio – il «decadentismo» di cui l’Arkàdina accusa la commedia scritta dal figlio qui si trasforma nel Grand Guignol di Konstantín che, nel momento di quella commedia che prevede l’apparire del diavolo, squarta un caprone che cala dall’alto e, narcisisticamente, si bea dell’effetto di lasciarsi inondare dal suo sangue.
Superfluo, adesso, soffermarsi più di tanto sulla prova magnifica offerta dagl’interpreti: Bénédicte Cerutti (Mascia), Valérie Dréville (l’Arkàdina), Cédric Eeckhout (Medvèdenko), Jean-Pierre Gos (Sòrin), François Loriquet (Trigòrin), Sébastien Pouderoux (Dorn), Mélodie Richard (Nina) e Matthieu Sampeur (Trepliòv). E, come si vede, un’altra scelta intelligente di Ostermeier è stata quella di eliminare i personaggi pleonastici di Sciamràev, amministratore in casa di Sòrin, e di sua moglie Polina.
Per tutta la durata dello spettacolo Marine Dillard interpreta una pittrice che, per mezzo di un pennello montato su un’asta telescopica, riproduce sul fondale una creazione di Katharina Ziemke: tracce astratte, che inutilmente tentano di diventare immagini riconoscibili e che alla fine vengono sepolte sotto un unico strato di nero. Un attimo prima che Dorn conduca Trigòrin alla ribalta e a mezza voce gli dica: «Porti via di qui Irina Nikolàevna. Perché Konstantín Nikolàevic si è ucciso…».

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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