«Grand’Estate» di Moscato: se si parte per non arrivare

Un momento di «Grand'Estate», lo spettacolo di Enzo Moscato in scena al Nuovo

Un momento di «Grand’Estate», lo spettacolo di Enzo Moscato in scena al Nuovo

NAPOLI – «Il sovvertimento continuo del senso riduce a zero il gesto o l’azione e al silenzio di una sostanziale afonia tutto quell’assurdo-surreale-cubista-dadaista-futurista accumulo di frasi straripante». Così, in una nota al testo, Enzo Moscato riassume quanto accade nel suo «Grand’Estate» (sottotitolo: «Un delirio fanta-storico, 1937/1960… ed oltre») in scena al Nuovo. E aggiunge che resta «il piacere del gioco. O, anche, il gioco del piacere».
Ebbene, non v’è dubbio che «il piacere del gioco» e «il gioco del piacere» qui abbiano spazio notevole. Giacché, addirittura, prendono la strada del vecchio, caro e buon avanspettacolo. E io, per esempio, ho riso come non mi capitava da tempo di fronte al seguente scambio di battute fra Sciuscetta e Poppina, i due personaggi protagonisti. Quando il piroscafo «Gange» viene fermato in vista di Malta perché dove sta andando, in Africa orientale, c’è la lebbra, Sciuscetta esclama: «Tu hai sentito? Teneno ‘a lepre e ce ‘a vonno passa’ a nnuie!». E Poppina, di rimando: «Eh! ‘A lepre! Sciusce’! ‘A gallina faraona! Ma è possibile ca siente sempe tutte cose a cazzo tuoio?!».
Però, un altro passo della nota predetta ci mette in guardia: possiamo lasciare che quel «gioco» viva in noi, «leggero ed irriflesso», «come semplice e naturalissimo respiro (Magari, con il viso che gronda acqua di mare, rivolto verso il sole di una grande, anche se improbabile, “Grand’Estate” in corso)».
Voglio intendere che un filo di malinconia attraversa le picaresche avventure e disavventure di Sciuscetta e Poppina, puttane del casino Bonacina «sulle scale del vico Tiratoio, sopra i Quartieri». Partono per cercare miglior fortuna nelle terre della colonizzazione fascista, ma, come s’è visto, in Africa orientale non ci arrivano. Finiscono nel lazzaretto di Malta tra i sifilitici e in campi di addestramento, tedeschi e alleati, messi su per coniare bizzarre «spie» che non si capisce chi e che cosa dovrebbero spiare. E quella malinconia, dunque, traduce il rimpianto per un  tempo in cui tutto era più autentico, pur nella miseria d’ideologie nefaste e nel grigiore di mestieri degradanti.

Enzo Moscato e Massimo Andrei nei panni di Poppina e Sciuscetta

Enzo Moscato e Massimo Andrei nei panni di Poppina e Sciuscetta

Non a caso, alla fine le epigoni di Sciuscetta e Poppina (hanno i soprannomi – che sublime invenzione! – di «Tutt’e Sere» e «Messa-in-piega») s’incarnano in due entraîneuses di uno squallido locale notturno che i clienti chiamano «il settant’otto»: e meditano di scrivere a Napolitano per chiedergli d’istituire un D-Day in onore delle puttane eroiche che le precedettero.
Le puttane, ecco: Moscato, nella circostanza, le chiama a raccolta un po’ tutte, quelle sue creature predilette, femmine o transessuali che siano; e accade, allora, che Sciuscetta e Poppina – mentre rimandano, senza nominarle, a Little Peach e a Luparella, loro compagna nel fatidico casino Bonacina – incontrano Cartesiana, Miss ‘Nciucio e Cha Cha Cha. E quindi s’invera, a mo’ di salutare riepilogo contro l’astenia del presente, quanto lo stesso Moscato scriveva nel programma di sala di «Ritornanti»: «Il nomadismo della ricerca […] non dovrebbe esser disgiunto mai dal rassicurante, naturale, portarsi appresso sempre le proprie cose, il proprio passato, le proprie masserizie, ideologiche o grammaticali».
Insomma, lo sgangherato e tuttavia allegro varietà in cui consiste «Grand’Estate» approda a un’alta e definitiva considerazione circa il nostro destino: partiamo, in ogni caso, giusto per non arrivare. E perciò quel coro di marinai – spesso abbandonati, in fondo, sulle loro sedie, come i fantocci pirandelliani nell’«arsenale delle apparizioni» – non richiama tanto il Querelle di Genet, quanto il sognante abbandono di Sandro Penna: il quale, per l’appunto cullato dal vento che «muove il passo ai bianchi marinai», desiderò vivere «addormentato / entro il dolce rumore della vita».
Tralascio, a questo punto, gl’impagabili effetti stranianti determinati come in una filastrocca dallo stillicidio delle rime baciate, i non meno irresistibili slittamenti di senso (che, per fare un altro esempio, sposano la lebbra a «Malatia» di Peppino Di Capri) e le sacrosante frecciate polemiche (vedi quell’«Asor Viola»!) contro i saccenti – a Napoli ne abbiamo non pochi – che ammorbano l’aria con le loro cachettiche fole. E aggiungo solo che bravissimi sono lo stesso Enzo Moscato, che firma anche la regia, e Massimo Andrei, rispettivamente nei ruoli di Poppina e Sciuscetta.
Efficace pure Gino Grossi. E volonterosi i giovani comprimari. Ma ora, non posso concludere se non tornando alle puttane di Moscato, indimenticabili e che, in fondo, sentiamo come sorelle amatissime: sbrindellate, imbambolate, emarginate, approssimate, sfrontate, calpestate, in una parola incasinate (nel doppio senso di confuse e, letteralmente, chiuse nel casino); e, pure, portatrici sane di un virus tremendo, quella verità – di sé e del loro rapporto senza mediazioni col mondo – ch’è l’esatto contrario di ogni autoritarismo e di ogni ipocrisia, e dunque un viatico di salvezza.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *