«La monaca di Monza» che ha per amante Genet

Walter Cerrotta e Yvonne Capece in una scena de «La monaca di Monza»

Walter Cerrotta e Yvonne Capece in una scena de «La monaca di Monza»

La battuta-chiave de «La monaca di Monza» di Testori non la dice il personaggio del titolo, Marianna de Leyva (la Gertrude manzoniana), ma il suo amante, Gian Paolo Osio. Ed è questa: «(…) io penso che l’uomo sarà libero solo quando non avrà più bisogno di parole e farà tutto, dalla nascita alla morte, senza pronunciarne una sola».
Infatti, siamo di fronte a un testo, lunghissimo, in cui deflagra una parola che, chiusa in una sua stentorea classicità, da un lato consiste della nostalgia di quella biblica (il Verbo capace di farsi Carne) e dall’altro costituisce l’unico mezzo per riconoscersi e, quindi, rapportarsi al prossimo («L’ultima possibilità che ci resta è qui, in questo momento, in questa parola», dichiara al termine Marianna). Poiché il processo intentato nella circostanza da Testori – vede la stessa Marianna contro chi l’ha spinta nel baratro, a cominciare dai genitori che non la vollero e dal prete subdolo che la trascinò verso Osio – si svolge tra i morti: che, proprio in quanto tali, sono privi del mondo, e incatenati a un’individualità eternamente invalicabile.
Insomma, c’è l’eco di Genet in quest’universo concentrazionario: non solo del Genet di «Sorveglianza stretta» (il dramma che, non a caso, si svolge in una cella, equivalente a quella in cui venne murata viva Marianna de Leyva), ma anche, e soprattutto, del Genet de «Le serve», ciascuna delle quali (ricordiamo ancora una volta la decisiva analisi di Sartre) «non vede nell’altra che sé stessa distante da sé». E tanto è il portato di una solitudine ontologica che si manifesta, per l’appunto, attraverso il particolarissimo tipo di parola descritto.
Ora, Yvonne Capece e Walter Cerrotta, registi e interpreti dell’allestimento de «La monaca di Monza» che la compagnia S(Blocco)5 presenta all’Elicantropo (uno dei rarissimi dopo quello iniziale firmato da Visconti nel ’67), partono col piede giusto: stanti la nebbia che avvolge lo spettacolo e il buio assoluto in cui si svolgono certe sequenze; ma, poi, adottano una recitazione troppo realistica e, peggio, troppo risentita. Mentre questo è, alla luce di quanto sopra, un testo che non va recitato, ma subìto, scontato: giacché, parafrasando Ungaretti, possiamo osservare che la vita si sconta vivendo.
L’errore più grave coincide proprio con la sequenza sulla quale, presumibilmente, la Capece e Cerrotta puntano di più, almeno in termini di «audience»: il primo amplesso fra Osio e Marianna, con annessi gemiti tanto plateali e insistiti da richiamare, addirittura, il cinema «hard core».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 20 dicembre 2014)

 

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