Quei tanti Pangloss che sono fra noi

Da sinistra, Lucia Mascino, Francesca Mazza e Filippo Nigro in una scena di «Candide» (foto di Achille Le Pera)

Da sinistra, Lucia Mascino, Francesca Mazza e Filippo Nigro in una scena di «Candide» (foto di Achille Le Pera)

NAPOLI – I pigri (è un eufemismo) cronisti teatrali insistono a etichettare Mark Ravenhill come uno dei «nuovi arrabbiati», facendone, in pratica, un erede dei vari Osborne, Bond e Pinter. Ma non potrebbero essere più diversi, Ravenhill e i tre suoi colleghi che ho citato: Osborne, Bond e Pinter esprimevano una rivolta contro la società che ancora si collocava nell’ambito dell’ideologia, mentre in Ravenhill la rivolta non s’affida più alle parole e ai loro significati, bensì all’evidenza disperata dei corpi, che annaspano nel vortice immemore del consumismo essi stessi ridotti a merce.
L’ennesima dimostrazione di tal fondamentale diversità viene ora da «Candide», il testo di Ravenhill che il Teatro di Roma presenta (oggi e domani le ultime due repliche) al Mercadante. E per capire di che cosa si tratti occorre riandare a quanto dice Robbie, uno dei quattro ragazzi protagonisti di quello «Shopping & Fucking» che diede la notorietà mondiale all’autore del Sussex: «Credo… credo che abbiamo tutti bisogno di storie, c’inventiamo delle storie per tirare avanti. Tanto tempo fa c’erano grandi storie. Storie tanto grandi che ci potevi vivere dentro per tutta la vita. Le Potenti Mani degli Dei e del Fato. Il Viaggio verso l’Illuminismo. La Marcia del Socialismo. Ma sono tutte finite o il mondo è cresciuto o si è rimbambito o le ha dimenticate, così adesso ce le inventiamo da soli. Piccole storie. Tutti ne abbiamo una».

Candide e Pangloss in un disegno di Paul Klee

Candide e Pangloss in un disegno di Paul Klee

Ecco, allora, che cos’è questo «Candide» di Ravenhill: non una semplice riscrittura del romanzo di Voltaire in sé, ma l’operazione del tutto inedita di far reagire il suo nucleo filosofico con ambienti e situazioni di vari periodi storici, ovviamente fino ai giorni nostri. E mi limito a un solo esempio per quanto riguarda lo scarto fra le grandi storie del passato e le piccole che ci toccano oggi.
Come sappiamo, Voltaire intese, per bocca di Pangloss, il precettore di Candido, mettere in caricatura la dottrina leibnitziano-wolffiana secondo cui – pur di fronte all’evidenza della malvagità umana, delle guerre e dei disastri naturali – non possiamo non dire che viviamo nel migliore dei mondi possibili. E Ravenhill, invece, nel secondo quadro ci presenta una ragazza, Sophie, che in un albergo di campagna, durante il party per i suoi diciott’anni, prima dichiara: «Credo che il problema della mia generazione è che sembra sempre che stiamo bene» e poi uccide tutti i familiari eccetto la madre Sarah, riprende la scena della strage col cellulare e infine si spara in testa. E il quadro seguente ci ammannisce i preparativi del film che si vuol trarre dal libro di successo scritto da Sarah su quella carneficina.
Le fila del discorso si tirano, naturalmente, nell’ultima sequenza, che non a caso si svolge con la sala illuminata e con gli attori che girano fra il pubblico: siamo nell’Istituto Pangloss, una sorta di beauty farm-museo in cui si può vedere, previo congruo bonifico, un Candide ibernato; e il dottor Pangloss, dopo aver comunicato: «Negli ultimi cinquant’anni il nostro marchio “Pangloss Pharmaceuticals” ha fornito una serie di trattamenti a breve e lungo termine per i pessimisti», annuncia trionfante: «Abbiamo isolato il gene dell’ottimismo e quando saremo in grado di attivarlo potremo essere certi che sarà presente in tutti i nuovi nati».

Mark Ravenhill

Mark Ravenhill

Insomma, un testo interessante, molto interessante e stimolante. E la regia di Fabrizio Arcuri, con intelligenza e gusto, lo racchiude – sulla base della sottolineatura per contrasto – in una cornice costituita da tutti i generi dello spettacolo: dalla farsa alla pantomima, dal musical alla tragedia, dalla commedia al cinema splatter, non escluse le incursioni nel melodramma. E quest’ultimo, per giunta, fornisce un non trascurabile spunto teorico, poiché rappresenta la forma chiusa per eccellenza e dunque, se ci pensiamo, somiglia, in quanto tale, proprio al mondo quale lo immagina Pangloss.
Ritmo veloce e, si sarà capito, ironia a pioggia connotano la messinscena, che peraltro s’avvale d’interpreti all’altezza: primi fra i quali, tutti in più ruoli, Filippo Nigro (Candide, Mike, Sceneggiatore), Lucia Mascino (Drammaturgo, Donna, Emma, Hannah, Martina, Infermiera), Francesca Mazza (Contessa, Sarah), Francesco Villano (Pangloss, Gli Abari, Adam, Tim, Gesuita), Luciano Virgilio (Barone, Jacques, Ted, Voltaire) e, al violino e alla voce, la straordinaria H.E.R. (Erma Pia Castriota).
Infine, e non è l’ultimo suo merito, questo spettacolo la possiede davvero, l’attualità che di solito vantano abusivamente registi e attori. E possiamo ben accorgercene noi napoletani. Qui di Pangloss ne abbiamo a iosa. In veste di drammaturghi barzellettieri, raccontatori di favole, filosofi di pronto intervento, commentatori tuttologi e via intellettuando, s’affannano giorno per giorno a proclamare, su gazzette e gazzettini, che Napoli e l’ambiente teatrale napoletano sono meglio del Paradiso Terrestre e di quello di Allah messi insieme. Non c’è alcun dubbio, gli spetta a pieno titolo il diritto di far propria la sottile puntualizzazione del loro antenato volterriano: «Coloro i quali hanno affermato che tutto va bene, han detto una castroneria. Bisognava dire che meglio di così non potrebbe andare».

                                                                                                                                              Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *