Di scena al San Carlo quel Falstaff che somiglia a Napoli

La scena iniziale del «Falstaff» proposto al San Carlo con la regia di Luca Ronconi (foto di Luciano Romano)

La scena iniziale del «Falstaff» proposto al San Carlo con la regia di Luca Ronconi (foto di Luciano Romano)

NAPOLI – «Quel suo gran corpo, quella sua vecchia carne di peccatore, quella sua compiutissima esperienza di bettole, di lupanari, di mariuoli e mariuolerie complica, ma non abolisce l’anima sua di fanciullo viziatissimo».
È il giudizio di Croce su Falstaff. E possiamo azzardare un accostamento fra il celeberrimo personaggio di Shakespeare, così descritto, e la città – innocente e perversa insieme – che si chiama Napoli? Se lo azzardiamo, ci renderemo conto che il «Falstaff» di Verdi in scena al San Carlo offre motivi d’interesse e rivela aspetti significativi ben al di là dei connotati formali e tecnici dell’allestimento. E partiamo, in proposito, dalla fonte del libretto di Arrigo Boito, appunto il Bardo.
Falstaff, lo sappiamo, vide la luce in un dramma storico, la prima parte dell’«Enrico IV» scritta sotto specie di seguito del «Riccardo II»; e tornò anche nella seconda parte, l’«Enrico V», in cui il debordante (in tutti i sensi) ciccione muore fra le braccia di Mrs Quickly in quella stessa osteria ch’era stata teatro delle sue ribalde e comicissime imprese. Finché, per volontà di Elisabetta I, Shakespeare fu costretto a riesumarlo: ma la ricomparsa di Falstaff ne «Le allegre comari di Windsor» materializzò soltanto un fantasma stupido e sciatto. E non ci fa pensare, questo, al paralizzante costume di Napoli, che produce solo stanchi ricalchi nel momento in cui utilizza la propria gloriosa tradizione culturale come il proverbiale tappeto sotto il quale occultare la polvere del presente?

Roberto de Candia nei panni di Falstaff (foto di Luciano Romano)

Roberto de Candia nei panni di Falstaff (foto di Luciano Romano)

Già, troppo spesso Napoli invera il passo di «Così parlò Zarathustra» di Nietzsche: «Il corpo è più importante dell’anima. Anima è soltanto una parola che indica qualcosa che sta nel corpo». Troppo spesso, voglio dire, Napoli privilegia ciò che appare rispetto a ciò ch’è nascosto perché essenziale. E torniamo, allora, al personaggio di Falstaff secondo Croce: un personaggio che oscilla fra l’«alto» della sua natura profonda e il «basso» di una quotidianità fatta d’ignavia e degrado.
Ebbene, è proprio quel che mostra la partitura del «Falstaff», che, datata 1893, fu – sappiamo anche questo – l’ultima di Verdi. Vi si colgono reminiscenze di Mozart, Beethoven e Weber che, nella scia del romanticismo tedesco, contribuiscono a creare, sul ciglio del tramonto del grande compositore di Busseto, il linguaggio che procura la soluzione del problema costituito dall’esigenza per cui era nata l’opera lirica, quella di rendere la musica in forma drammatica.
Giustissimo, quindi, ciò che ha scritto al riguardo Claudio Sartori: «L’elemento tematico (simbolico-musicale) vero e proprio non esiste; vive invece un testo che si realizza vocalmente e strumentalmente in una fusione unitaria, dove a volte le voci dei cantanti possono scendere a far parte dell’orchestra o gli strumenti possono salire a invadere la scena». Ed eccola, l’idea – ad un tempo lineare e geniale – su cui si fonda la splendida regia di Luca Ronconi che rivediamo adesso al San Carlo, ripresa con amorevole precisione da Marina Bianchi.

Luca Ronconi

Luca Ronconi

Constatiamo, appunto, il dispiegarsi di un movimento continuo dall’alto verso il basso e viceversa. E tanto si verifica, a mo’ di annuncio programmatico, già nella prima sequenza: quando, a un Falstaff schiacciato a terra su una poltrona sfondata, corrispondono due personaggi a mezz’aria: l’uno che cala appeso a delle corde e l’altro sollevato nel cestello dal braccio telescopico di un «ragno».
Ronconi, dunque, conferma anche in questa circostanza il suo gusto di sempre per la macchineria. Ma c’è da aggiungere subito che mai come in questa circostanza tale gusto s’è trasformato – con strepitosa inventiva, e non avulsa da una vivificante ironia – in ragione concettuale della messinscena: vedi, tanto per fare qualche altro esempio, quelle «comari» e quei loro frequentatori che se ne stanno in piedi su un velocipede e su un trattore-locomotiva mentre Falstaff, al contrario, viene scaraventato giù nel fossato da un cesto della biancheria ostentatamente trasportato su una piattaforma.
Persino le cose obbediscono a un simile movimento: sicché, tanto per mettere in campo l’ultimo esempio, vediamo un tappeto che sale, estendendosi fino a formare una quinta, e una quercia che scende a formare, con i suoi rami, una sorta di gabbia per il Falstaff beffato. E tale immagine conclusiva, poi, rende conto anche del fascino che a quest’allestimento conferiscono le scene di Tiziano Santi in uno con i costumi di Maurizio Millenotti.
Di buona caratura, infine, la direzione di Pinchas Steinberg. E a posto, nel complesso, i protagonisti Roberto de Candia (Falstaff), Fabian Veloz (Ford), Ainhoa Arteta (Alice Ford), Rosa Feola (Nannetta), Enkeleida Shkoza (Mrs Quickly) e Marina Comparato (Meg Page). Successo pieno alla «prima», con molti e sentiti applausi.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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