Se Pirandello finisce
in un rifugio antiaereo

Gianfranco D'Angelo in «Alcazar»

Gianfranco D’Angelo in «Alcazar»

NAPOLI – «Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti, così sfuggita da voi…».
Ricordate? È la battuta che l’Enrico IV di Pirandello rivolge al dottor Genoni fingendo di scambiarlo per l’abate Ugo di Cluny. E traduce – lo ripeto ancora una volta – il tema centrale dell’opera del drammaturgo di Girgenti: il tentativo disperato di fissare la vita, ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione (per giunta slegati l’uno dall’altro), in una forma unica, data per sempre e per sempre riconoscibile.
Ebbene, ne abbia avuto o meno coscienza l’autore, è a questo che rimanda «Alcazar», la commedia di Gianni Clementi in scena ancora oggi pomeriggio al Delle Palme. C’imbattiamo in una scalcagnata compagnia di varietà – il capocomico improvvisato Costantino, la sua figlia zoppa Mariuccia, sartina tuttofare, le ballerine cinquantenni Carmen e Iris, il ballerino sessualmente incerto Saverio, l’operaio Umberto diventato ballerino per necessità e l’attore Ernesto, l’unico con qualche segno di professionalità – che, fra un bombardamento e l’altro, prova un nuovo spettacolo in un rifugio antiaereo della Roma fra il ’43 e il ’44.
Evidentemente – nel solco, appunto, della citata battuta di Pirandello – lo spettacolo in allestimento rappresenta la «tonaca santa» (non dimentichiamo che l’Alcazar è, insieme, il teatro di terz’ordine in cui quella compagnia si esibirà e, in spagnolo, la fortezza), mentre il «serpe» viene costituito dagli accadimenti esterni che, quasi un equivalente della luce che penetra nel locale sotterraneo da una feritoia in alto, arrivano a sconvolgere l’illusoria oasi di quelle prove. Fino alla sorpresa decisiva: Mariuccia – proprio lei, la zoppetta timida e bruttina – è una staffetta dei GAP.
Dunque, un testo interessante. E perciò è un vero peccato che, poi, gl’interpreti – guidati (si fa per dire) da Luca Pizzurro – lo spingano sul piano di un avanspettacolo abborracciato o di un realismo spicciolo e inconcludente. Gianfranco D’Angelo ci mette qualche barzelletta delle sue e gag che oppongono la «geografia» alla Gramatica e un «morisse Chevalier» a Maurice Chevalier: il che, di conseguenza, risulta pesantemente contraddittorio rispetto ai momenti drammatici, in cui, peraltro, il dolore viene sistematicamente scambiato per piagnucolìo. Il più convincente mi sembra Michele Gammino nel ruolo del vecchio attore trombone.
Certo, a parziale scusante di quanti stavano sul palcoscenico va considerato che l’atmosfera in sala (ho visto lo spettacolo ieri sera) non era delle migliori, ossia delle più adatte a svolgere l’attività ormai misteriosa che in un tempo lontano si chiamava teatro. Cellulari e iPhone accesi, un continuo chiacchiericcio, gruppi di ragazzotti che entravano non si sa come durante la rappresentazione e andavano via dopo aver dato fastidio per una mezzora… E il personale del Delle Palme che assisteva impassibile. Son dovuto andare io, quattro volte, a chiedere ad altrettanti spettatori che spegnessero il loro dannato telefono. Che tristezza, che vergogna.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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