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Un «doppio sogno» fra Shakespeare e Cappuccio
Isa Danieli (Titania) e Lello Arena (Oberon) in un momento del «Sogno di una notte di mezza estate»
NAPOLI – «Sogno di una notte di mezza estate» viene comunemente giudicata una commedia lirica. E non v’è dubbio, certo, che il lirismo vi abbia una parte cospicua. Ma poi, al di là di questa classificazione, tutto sommato di comodo, occorre tener presente che ci troviamo di fronte a uno dei testi più complessi e profondi dell’intero canone shakespeariano.
Per cominciare, il «Sogno» marca l’uscita del Bardo dall’apprendistato e, quindi, dalla fase sperimentale. Ed è come se Shakespeare abbia voluto fornire una dimostrazione esaustiva del fatto che, uscito da quella fase, era ormai in possesso di un tecnica compositiva tale da potersi tranquillamente spingere sino ai limiti del virtuosismo. Vedi, innanzitutto, l’estrema varietà degli stili qui messa in campo: si va, poniamo, dal comico al farsesco, dall’aulico al sentimentale. E sempre con strabiliante disinvoltura.
William Shakespeare
Lo stesso discorso vale per le fonti utilizzate nella circostanza: si passa da Chaucer a Plutarco, da Ovidio ad Apuleio, dal folclore inglese a quello norvegese, dalle saghe dei Nibelunghi alla «chanson de geste». E in ultimo consideriamo che – un autentico fuoco pirotecnico – «Sogno di una notte di mezza estate» intreccia ben cinque temi distinti: quello di Teseo e Ippolita, quello di Oberon e Titania, quello delle coppie Ermia-Demetrio ed Elena-Lisandro, quello di Quince e Bottom e, infine, quello relativo alla «lamentevole historia» di Piramo e Tisbe.
Ebbene, Ruggero Cappuccio – autore della riscrittura della commedia in questione che l’Ente Teatro Cronaca propone fino a domenica al San Ferdinando – si rivela (ciò che costituisce una vera sorpresa) fedelissimo al modello, di cui ricalca e sottolinea ogni caratteristica strutturale ed ogni tratto formale. Tanto che il pregio del suo testo può essere agevolmente individuato nel fatto che esso appare come una puntuale esegesi di quello shakespeariano; e, di più, come un vero e proprio saggio critico sullo stesso.
Per quanto riguarda l’intreccio dei temi di cui sopra, basta por mente, per esempio, alla Titania che parla di «sovraccarico di trama». Per ciò che si riferisce alla varietà delle fonti, interviene – è ancora un esempio – la citazione della canzone classica nostrana («scurdammoce ‘o ppassato, / simmo ‘e Napule, paisa’…»). E per concludere, la compresenza del farsesco e dell’aulico si realizza sulla base di scarti come quello fra lo slittamento di senso «pròloco-prolòco» e la definizione («metafisico vento») che di sé dà Puck.
Ruggero Cappuccio
Eccellente, per di più, è l’idea di tramutare in burattini molti dei personaggi. Invera perfettamente la nota e decisiva analisi di Jan Kott: «La riduzione del personaggio a partner amoroso mi pare la caratteristica più essenziale di questo sogno crudele. E forse la più moderna. Il partner non ha più un nome, non ha neanche un volto. È semplicemente quello più vicino. Come in certe opere di Genet, in cui non esistono dei personaggi precisi, ma solo delle situazioni. Tutto diviene ambivalente».
Infatti, aggiungo io, in quelle opere di Genet i personaggi non sono che pure funzioni. E a tanto, d’altronde, si collega la non meno intrigante idea su cui si fonda la regia di Claudio Di Palma: quella di calare l’insieme dei personaggi – Titania, Oberon, Puck e la compagnia di clown, fantocci e guarattelle che li circonda (molto belli i costumi di Annamaria Morelli) – in un’atmosfera da pirandelliano «arsenale delle apparizioni»: l’«arsenale», ricordiamolo, che compare ne «I giganti della montagna», un testo incompiuto, dunque «aperto», e misterioso al pari del «Sogno» shakespeariano.
Alla formidabile coppia degl’interpreti protagonisti tocca, poi, il compito di non far pesare troppo le fasi di stanca – che non mancano – sul piano dello spettacolo in sé: la Titania di Isa Danieli e l’Oberon di Lello Arena distillano, nei loro duetti, tutta intera la sapienza inculcata ad Isa dal glorioso avanspettacolo d’un tempo e a Lello dal cabaret d’autore. E sono anche capaci, mentre dispensano comicità, d’indirizzare gli spettatori verso i territori accidentati di una pensosa malinconia. Perché – lo dicono senza dirlo alla fine, quando si spogliano dei costumi – il sogno può somigliare al sonno di morte paventato da Amleto.
Fra gli altri interpreti citerei Fabrizio Vona nel ruolo di Puck. Ma infine, mi permetto una sommessa domanda: che bisogno c’era di questa riscrittura? Perché una cosa è certa. Dovendo scegliere fra il «Sogno» di Shakespeare e il «Sogno» di Cappuccio, io, ovviamente, sceglierei quello di Shakespeare. E me lo terrei ben stretto.
Enrico Fiore