Se l’amore trasforma la musica in teatro

Patrizia Spinosi e Maurizio Murano in «Passioni in...cantate»

Patrizia Spinosi e Maurizio Murano in «Passioni in…cantate»

NAPOLI – Come sappiamo, l’opera lirica nacque dall’esigenza di rendere la musica in forma drammatica. Ed è proprio a quell’esigenza che si aggancia «Passioni in…cantate», lo spettacolo di Mariano Bauduin in replica al Sancarluccio fino al 3 gennaio: perché i brani celebri qui riproposti (da «Duetto buffo di due gatti» di Rossini a «Scetate» di Russo e Costa, da «Nel cor più non mi sento» di Paisiello a «Canzona nuvella» di Ricci e D’Arienzo) tendono costantemente a diventare autentico teatro.
Basta a dimostrarlo questa sequenza. Patrizia Spinosi esegue la «Napulitanata» della coppia Di Giacomo-Costa e, una volta che ha finito, va a mettere la leggendaria «mezzasuola» sulla faccia del suo partner Maurizio Murano, che esegue la «Serenata di Pulcinella» di Cimarosa mentre Patrizia la commenta, straniandola, con i gesti a scatti tipici delle «guarattelle». E una perfetta identità si stabilisce, così, fra i versi digiacomiani («ve manca la parola e me parlate, / pare ca senza lacreme chiagnite») e la maschera dell’Acerrano: in entrambi i casi si allude a qualcosa che non c’è ma sembra che ci sia, in una parola al travestimento.
Ebbene, non sono per l’appunto queste la grazia e la maledizione del teatro, costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive? E il teatro, per giunta, s’accampa nell’intelligente e raffinato spettacolo di Bauduin anche per un altro e più sostanziale motivo: perché conosce solo l’opzione del presente. Infatti, la scaletta di «Passioni in…cantate» costituisce, sul filo di una programmatica contaminazione, una radicale messa al bando del tempo. E in tal modo il fondersi di Settecento e Ottocento sposta il tema della rappresentazione, quello dell’amore, sul terreno degli archetipi.
In breve, l’assunto dichiarato nella circostanza è che l’amore debba essere ricondotto alla «psiche essenziale» di Jung piuttosto che al semplice istinto sessuale considerato da Freud. E in questa direzione, con estrema coerenza, vanno del resto gli arrangiamenti di Michele Bonè, che accoppiano due chitarre, la sua e quella di Ernesto Bravo Pèrez, votate rispettivamente alla cantabilità nostrana e ai nervosi sussulti del flamenco: giusto – l’una e l’altro – archetipi.
Infine, risultano scontate, dopo quanto s’è detto, le lodi per Patrizia Spinosi e Maurizio Murano: vestiti con gli splendidi costumi di Zaira De Vincentiis, sembrano davvero, alla luce tremula dei ceri, fantasmi venuti dal «non luogo del nostro buio» (così Carmelo Bene definiva il teatro) per portarci il dono di una superstite bellezza.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 24 dicembre 2015)

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