Quella Napoli che si trasforma in Eternapoli

Enrico Ianniello in «Eternapoli»

Enrico Ianniello in «Eternapoli»

NAPOLI – «Nelle piazze principali la gente avrebbe rappresentato la storia della città come se stesse accadendo oggi, e la realtà e il sogno sarebbero diventati un solo grande spettacolo».
Credo che si tratti del passo-chiave del romanzo di Giuseppe Montesano «Di questa vita menzognera»: perché costituisce una sintesi estrema della sua trama e, insieme, sottolinea tutti gli eclatanti (e inquietanti) rimandi al presente che quella trama contiene. Qui, infatti, si narra del progetto – varato dalla potentissima e ricchissima famiglia malavitosa dei Negromonte – di trasformare Napoli in Eternapoli, ossia in un parco tematico in cui, poniamo, le case sono ricostruite «con i capitelli romani autentici e i mattoni rossi nuovi» e le ragazzine e le madri sono «vestite con le tuniche tenute strette dalle armille». E che cosa facciamo noi, forse che – in generale, e per l’appunto a Napoli in particolare – non recitiamo il nostro passato, indossandolo come una maschera consolatoria e assolutoria?
Si capisce, allora, che il «museo vivente» pensato dai Negromonte si riduce, piuttosto, a una natura morta. Ed è una natura morta dipinta, congiuntamente, da Rabelais e da Hieronymus Bosch: poiché nel libro di Montesano, importante oltre che assai bello, circola dall’inizio alla fine una comicità straripante che, però, si tinge immancabilmente di un colore livido. Senza contare come si chiamano i personaggi. Il soprannome Calebbano rinvia evidentemente al Calibano di Shakespeare, il mostro che vive solo del rimpianto del tempo in cui fu padrone dell’isola; mentre il cognome Negromonte rinvia al negromante, l’indovino che predice il futuro evocando i defunti.

Giuseppe Montesano

Giuseppe Montesano

Si capisce pure, di conseguenza, perché Montesano citi in epigrafe i versi di Blok che poi riprenderà nel testo: «Ma di questa vita menzognera / cancella l’untuoso rossetto / (…) e anche non vedendo l’avvenire, / di’ no (il “no” è sottolineato dal corsivo, n.d.r.) ai giorni del presente». Ci tocca, appena, ciò che nell’eco della disillusione pasoliniana esprime alla fine del romanzo Roberto, il personaggio che racconta in prima persona: «la speranza non serve, devo solo mettere un piede dopo l’altro e camminare».
Ebbene, direi che rispetto a tutto questo Enrico Ianniello – regista e protagonista di «Eternapoli», l’adattamento di «Di questa vita menzognera» che Teatri Uniti presenta ancora oggi nel Piccolo Bellini – compie un’operazione addirittura esemplare. Senza commettere l’errore che di solito commettono coloro i quali traducono un romanzo in drammaturgia, quello di «sceneggiare» (così introducendo il realismo nel teatro che, per sua natura, è sempre e unicamente il luogo del simbolo), interpreta da solo gli undici personaggi principali del libro. In pratica, diventa lui stesso Montesano. E dunque quei personaggi diventano a loro volta monadi che si riducono alla sostanza di pure idee.
Lo straniamento in tal modo determinato risulta poi ulteriormente accentuato dalla dichiarata metaforicità dell’allestimento: l’interprete agisce, spesso seduto su una poltrona che sembra un trono, sullo sfondo di un pannello che accoglie videoproiezioni (sono di Mauro Penna) in cui si mescolano confusamente parati classici, viluppi mutevoli di nubi e cani ringhianti in compagnia di bambini piccolissimi. Ed è superfluo, infine, dire della sapienza che, in quanto attore, Ianniello dispiega caratterizzando i singoli personaggi con semplici variazioni della voce. Una recitazione che tende sistematicamente a «sottrarre» e, perciò, esalta per contrasto il tendenzioso barocco messo in campo dalla scrittura dell’autore.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 13 dicembre 2015)

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