Omaggio a Dalì fra il circo e il varietà

Un momento de «La Verità» (foto di Viviana Cangialosi)

Un momento de «La Verità» (foto di Viviana Cangialosi)

NAPOLI – Un’equazione perfetta sovrintende a «La Verità», la creazione di Daniele Finzi Pasca ora in scena al Bellini. Giacché, se (come recita un appunto di Julie Hamelin, la moglie di Finzi Pasca) «la verità è tutto ciò che abbiamo sognato, che abbiamo vissuto, che abbiamo inventato, tutto quello che fa parte della nostra memoria», a sua volta quest’allestimento è una «summa» di tutto ciò che lo spettacolo degli ultimi secoli ha prodotto in termini di generi e di tecniche. Non a caso il proscenio è delimitato, simbolicamente, dalle coppe rifrangenti che distinguevano le ribalte di un tempo.
Dunque, si mescolano qui la musica, il canto, il circo (con le figure canoniche dei trapezisti, degli acrobati, dei contorsionisti, dei giocolieri), la pantomima e il trasformismo, giù giù fino al can can e al varietà (con le altrettanto canoniche figure del comico e della «spalla»). E c’è persino una raffinata citazione del Bunraku, l’antico (sorse alla fine del XVI secolo) teatro dei burattini giapponese in cui il «ningyo», appunto il burattino, viene manovrato a vista da operatori completamente vestiti di nero.
Inoltre, bisogna parlare di un’altra e più profonda equazione. «La Verità» s’ispira a un fondale che Salvador Dalì dipinse nel 1944 per l’allestimento di «Tristano e Isotta» alla Metropolitan Opera House di New York. E forse che una delle opere più celebri di Dalì, datata 1931, non s’intitola «La persistenza della memoria»?
Il resto, naturalmente, appartiene al complesso delle caratteristiche portanti e preziose che da sempre connotano gli spettacoli di Finzi Pasca: la fantasia, la leggerezza e la costante variabilità. Caratteristiche che, non dimentichiamolo, l’autore e regista svizzero ha affinato attraverso le esperienze decisive da lui compiute con il Cirque Éloize e il Cirque du Soleil.
Inutile, infine, sprecare parole sulla bravura dei tredici artisti in campo, talvolta spinta ai limiti del virtuosismo e, comunque, puntualmente scandita da una contagiosa allegria. Conviene, piuttosto, dar conto di un altro (e davvero non secondario) connotato di questo spettacolo: la pratica salutare dell’autoironia.
Il comico-presentatore-entertainer che fa da filo conduttore fra i vari «numeri» annuncia in più riprese che il fondale di Dalì verrà messo all’asta fra gli spettatori e che il ricavato della vendita servirà a realizzare una casa di riposo «per gli artisti decrepiti, anzi, come dite voi, ‘nzallanute. E ce ne sono tanti». Chissà se è una frecciata diretta a qualcuno in particolare.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 12 dicembre 2015)

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