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Il teatro di Francesco Rosi:
fra neorealismo e grottesco
Francesco Rosi
Le caratteristiche fondamentali (e, meglio, fondanti) del suo cinema – l’impegno civile e l’attenzione verso i problemi e le dinamiche sociali – Francesco Rosi le trasferì pari pari nel teatro, che ritrovò, dopo una fugace esperienza di quarant’anni prima, un po’ come si ritrova il primo amore dopo un’intera vita.
Basta a dimostrarlo già il primo dei tre allestimenti di capolavori di Eduardo in cui si concretizzò questo suo ritorno in palcoscenico. Rosi, nel 2003, portò alla ribalta una «Napoli milionaria!» attestata, non a caso, sul versante del bozzetto (fu proprio lui a definirlo così) «neorealistico». Di qui le invenzioni – minime, ma estremamente precise – con le quali connotò l’azione: a partire dal boogie-woogie e dal notiziario radiofonico americano che segnavano l’inizio del secondo atto.
Ma, con il secondo degli allestimenti in questione (la messinscena, nel 2006, de «Le voci di dentro»), Rosi compì un autentico balzo sul piano analitico. Nel senso che illuminò la dicotomia realtà/sogno che spasima in quel testo con tutta una serie di notevolissimi innesti a metà fra l’ironia, il grottesco e il surreale: vedi, su tutti, il capretto alla Francis Bacon che compariva nel vano della porta e il disco dell’Hot Club de France messo su da Zi’ Nicola.
Infine – con la messinscena, nel 2008, di «Filumena Marturano» – Francesco Rosi alluse con rara acutezza alla sostanziale ambiguità (o ambivalenza che dir si voglia) del celebre personaggio. Il famoso «Pazzo, pazzo, pazzo!» di Domenico Soriano risuonava con il sipario ancora chiuso, e non vedevamo, quindi, i ripetuti schiaffi che lui s’infligge: di modo che, in un colpo solo, venivano cancellati e il naturalistico e il melodrammatico della situazione di partenza.
Dal canto suo, la scena di Enrico Job assumeva come fondale un’alta cancellata attraverso cui incombeva sul soggiorno di casa Soriano l’esterno di una Napoli immersa in una luce nel primo atto rossastra (l’incendio del rancore, del risentimento e della rabbia) e nel terzo lunare (il limbo delle schermaglie legali e delle consolazioni finali). Si poteva rendere meglio, di «Filumena Marturano», l’intreccio inestricabile fra le tensioni psicologiche e, per l’appunto, i condizionamenti imposti dalla società?
Quell’esterno, d’altra parte, accoppiava il Maschio Angioino e un intrico di case da città levantina: ciò che, l’estrema e più pregnante invenzione, faceva il paio con la Filumena che si muoveva intorno a Domenico, sostanzialmente immobile, proprio come la tigre intorno alla capra che i cacciatori legano a un paletto a far da esca.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 11 gennaio 2015)