Addio a Luca De Filippo, una vita nel segno di Eduardo

 

Luca De Filippo

Luca De Filippo

È morto ieri pomeriggio nella sua casa romana Luca De Filippo. Figlio di Eduardo e della cantante e attrice torinese Thea Prandi, aveva 67 anni ed era malato da tempo. L’ultima sua apparizione a Napoli è avvenuta nell’ottobre scorso all’Augusteo, dove – accanto alla moglie Carolina Rosi, figlia del  regista Francesco – recitò con grande successo nella commedia paterna «Non ti pago». Erano evidenti i segni della sua sofferenza, ma lui seppe fronteggiarla con l’assoluta dedizione al proprio lavoro e nel rispetto incondizionato per il pubblico. Quella dedizione e quel rispetto che gli aveva insegnato Eduardo.

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Era la prima volta che recitava un testo del padre senza avere il padre a fianco sul palcoscenico. Per quell’allestimento di «Ditegli sempre di sì» – dato nel febbraio dell’82 al Goldoni di Venezia, nell’ambito del Carnevale del Teatro dedicato da Scaparro a Napoli – Eduardo s’era riservato solo il ruolo di regista. Eppure sul palcoscenico lo vedevamo lo stesso, tale e quale. E quando al termine della «prima» andai a salutarlo nel camerino e gli dissi: «Ma non ti pare di esagerare a imitare così tanto tuo padre?», lui, Luca De Filippo, mi rispose, forse anche un po’ risentito: «E tu prova a stare per vent’anni vicino a uno come quello, poi vedi se non lo imiti!».
Ecco, Luca De Filippo e Eduardo, quel padre gigantesco e certamente non facile da frequentare, quand’era in vita, e ancor più da «gestire» dopo la sua morte. All’inizio Luca, come si sa, non voleva fare l’attore, anzi confessò ad Annamaria Ackermann, ch’era in compagnia con loro, il proposito di vendere tutte le proprietà, dopo la scomparsa di Eduardo, e di chiudere con l’ambiente teatrale. Ma in seguito, sappiamo anche questo, a poco a poco Eduardo lo conquistò, e vennero gli allestimenti memorabili dei capolavori replicati anno dopo anno dal vivo e, inoltre, registrati per la televisione.
D’altronde, non poteva andare diversamente per colui che portava sulle spalle la responsabilità di essere – insieme con il cugino Luigi, il figlio di Peppino – l’ultimo discendente della più grande famiglia teatrale italiana del Novecento: quella famiglia che aveva avuto come capostipite suo nonno Eduardo Scarpetta, il reinventore in napoletano del «vaudeville» e, dunque, il creatore di una drammaturgia che portava alla ribalta – riproducendone in chiave comica sia le piccole manie che l’ideologia conservatrice e in qualche caso (come annotò Croce) addirittura reazionaria – la borghesia che aveva sostituito, sulla scena, il teatro popolare incarnato da Antonio Petito.

Luca De Filippo con Eduardo

Luca De Filippo con Eduardo

Per quanto lo riguardava personalmente, poi, Luca De Filippo aveva appreso dal padre due cose soprattutto, la serietà e il rigore. E furono i tratti distintivi non solo del suo lavoro come interprete e regista, ma anche e specialmente della sua vita, connotata da una riservatezza tanto più preziosa quanto più rara nel mondo effimero dei teatranti. Proprio quella serietà e quel rigore lo spinsero, peraltro, a rifiutarsi d’essere considerato sempre e solo come «il figlio di Eduardo» e, per conseguenza, di rimanere prigioniero della drammaturgia paterna.
Arrivarono, così, le «vacanze» (o le «escursioni» che dir si voglia) in territori piuttosto lontani da quelli eduardiani. Come regista o attore, o come regista e attore insieme, Luca De Filippo prese parte, infatti, ad allestimenti di «classici» consacrati («Don Giovanni» e «Tartufo» di Molière, nell’87 e nel ’99, e «La dodicesima notte» di Shakespeare, nel 2009); di testi scomodi già all’epoca in cui furono scritti («Il suicida» di Nikolaj Erdman, nel 2000); di copioni emblematici del teatro «boulevardier» («La palla al piede» di Feydeau, nel 2002); di «classici» contemporanei («L’amante» di Pinter, nel 1997, e «Aspettando Godot» di Beckett, nel 2002); e, infine, di commedie di freschissimo conio («La casa al mare» di Vincenzo Cerami, nel 1991, e «L’esibizionista» di Lina Wertmüller, nel 1994).

Luca De Filippo ne «La grande magia»

Luca De Filippo ne «La grande magia»

Ma troppo forte, si capisce, era il richiamo della «patria». E dunque, a partire dai primi anni dopo il 2000, ci fu il gran ritorno a Eduardo: con una partenza bruciante (il trittico strepitoso composto dagli allestimenti di «Napoli milionaria!», «Le voci di dentro» e «Filumena Marturano» firmati da Francesco Rosi rispettivamente nel 2003, nel 2006 e nel 2008) e l’approdo al pirotecnico susseguirsi, negli anni recenti, delle messinscene di testi poco frequentati quali «Padre Cicogna» (2009), «Le bugie con le gambe lunghe» (2010), «La grande magia» (2012), «Sogno di una notte di mezza sbornia» (2014) e, da ultimo, «Non ti pago».
Ebbene, basta un solo esempio a dire dell’intelligente lavoro di scavo compiuto da Luca De Filippo rispetto ai testi di Eduardo che andava via via riproponendo. Nel portare di nuovo in scena «Ditegli sempre di sì» (al Diana, nel 1997), Luca, in quanto regista, diede luogo a una lettura fondata sullo scarto fra il pensiero e la parola, ossia sullo scontro fra chi è stato ricoverato in manicomio perché «non ragionava» e coloro i quali sono convinti d’essere i soli a «ragionare». Ovviamente, per pensiero occorre intendere la realtà (e cioè la verità) e per parola la maschera (e cioè il calcolo). E Luca De Filippo, poniamo, rendeva tale scarto trasformando il padrone di casa, don Giovanni Altamura, in un tronfio gerarchetto fascista sconfitto dalle beccate di un disarmato canarino.
Era l’approfondimento di quanto aveva disposto la regia di Eduardo per il citato allestimento di «Ditegli sempre di sì» dato nel febbraio del’82 al Goldoni di Venezia. E allora il cerchio si chiude perfettamente, nel segno di una fedeltà artistica che coincide con l’affetto umano.
Una sera del ’77, in attesa che cominciasse una delle repliche de «Le voci di dentro», parlavo con Eduardo davanti all’ingresso del San Ferdinando. E d’improvviso lui si lanciò in un vertiginoso assolo surreale, mentre intorno ci sguigliava l’anarchico correre dei ragazzini venuti dai vicoli. Eduardo parlava e parlava, quasi da un suo mondo lontano, distratto appena, di tanto in tanto, da uno sguardo di tenerezza che lanciava a quei ribaldi. E disse di avergli dato il ruolo di Carluccio Saporito perché Luca somigliava – «è luongo e sicco, cu ‘na capuzzella nera nera» – al verme che compare nel sogno della cameriera Maria, quel sogno in cui, mi ripeté ancora una volta, «sta tutto il significato della commedia».
Eduardo s’identificava con quel sogno. E s’identificava, addirittura fisicamente, con Luca, che aveva scelto come interprete perché a sua volta s’identificava fisicamente con quel sogno. Eduardo voleva durare oltre la morte attraverso Luca. E questo è avvenuto, fino a quando l’ha permesso l’impassibile strategia della vita.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 28 novembre 2015)

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