Se si vive in una città chiamata Roulettenburg

 

Aleksandr Polamishev ed Era Ziganshina in una scena di «Liturgia zero»

Aleksandr Polamishev ed Era Ziganshina in una scena di «Liturgia zero»

NAPOLI – «Liturgia zero» – lo spettacolo di Valery Fokin che il Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo ha presentato al San Carlo sotto l’egida dello Stabile di Napoli – è dichiaratamente tratto da «Il giocatore» di Dostoevskij. Ma sarà bene chiarire subito una cosa. Manca, qui, ciò che costituisce addirittura la ragion d’essere di quel romanzo: l’analisi accuratissima, e condotta in profondità come solo Dostoevskij poteva fare (anche, nella circostanza, per motivi autobiografici, visto che dal tavolo verde fu lui stesso rovinosamente attratto), della natura del gioco, del giocatore e del rapporto fra il gioco e il giocatore da una parte e fra il gioco, il giocatore e la società dall’altra.
Questo perché, come quasi sempre accade, il trasferimento di un romanzo sul palcoscenico significa, e non può non significare, il passaggio dall’introspezione alla rappresentazione. In breve, come potrebbe funzionare sul palcoscenico il racconto in prima persona messo in campo per l’occasione da Dostoevskij? Non rimaneva che procedere alla messinscena della trama, grosso modo riassunta: ovvero del turbinìo di perdite al gioco e di conseguenti debiti e ipoteche che si scatena intorno ad Aleksej Ivanovic, precettore in casa di un generale e innamorato della sua figliastra Polina. Un turbinìo alimentato anche dall’attesa dell’eredità della nonna Antonida Vasil’evna, soldi che poi sfumeranno quando pure la vecchia si metterà a giocare e, naturalmente, perderà tutto.
Comunque, occorre aggiungere che l’adattamento – firmato dallo stesso Fokin e da Aleksandr Zavyalov – rende perfettamente conto, affidandosi soprattutto al grottesco, delle identificazioni che appunto sul piano della trama si determinano: a partire dall’impianto scenografico di Aleksandr Borovsky, che – chiamandosi Roulettenburg l’immaginaria stazione termale tedesca in cui si svolge gran parte della vicenda – propone, giusto, una struttura centrale che riproduce una roulette, con le poltrone che ospitano i personaggi/giocatori contrassegnate dai numeri del disco.
Peraltro, non si sente una sola parola che non sia stata scritta da Dostoevskij. E il resto è affidato agli attori, straordinari come sempre sono gli attori russi sul versante del rigore e dello stile. Il migliore risulta senz’alcun dubbio Aleksandr Polamishev, poiché, nel ruolo di un Aleksej Ivanovic vestito e atteggiato a metà fra il barbone e il clown, sottolinea fin nei minimi dettagli l’esaltazione inane che caratterizza il personaggio. Infatti, Aleksej Ivanovic si sente spesso «in preda a un vero delirio», tanto da esclamare che «c’è una certa gioia anche all’ultimo gradino dell’umiliazione e dell’annullamento»; e di Polina, che lo tiene a distanza, dice: «avrei dato la metà della mia vita per poterla strangolare», aggiungendo persino: «Giuro che se mi fosse stata data la possibilità di affondare lentamente un coltello affilato nel suo petto, ebbene io l’avrei fatto con vero godimento».
Inutile rimarcare che Polamishev raggiunge tali risultati applicando con lucida disciplina il metodo dell’immedesimazione psicologica di Stanislavskij. Fino a versare lacrime vere. E altrettanto dicasi di Era Ziganshina nel ruolo di Antonida Vasil’evna. Mentre – a proposito del rigore e dello stile di cui sopra, che si traducono in un controllo assoluto del corpo – segnalerei, fra gli altri, Olesia Sokolova: nel ruolo di Mademoiselle Blanche, per tre o quattro volte scopre la coscia destra incollandola al fianco del partner di turno e tutte e tre o quattro le volte lo fa esattamente allo stesso modo, senza sgarrare di un solo centimetro.
Assai meno convincente, invece, l’invenzione di quell’Aleksej Ivanovic che, sul finale, sogna il ritorno all’innocenza perdendosi nella visione di se stesso bambino. Mi permetto di credere che affibbiare del «buonismo» a uno come Dostoevskij sia almeno il famoso attimino azzardato.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 22 novembre 2015)

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