I lenti passi che preparano la violenza sulla donna

Saverio La Ruina in «Polvere»

Saverio La Ruina in «Polvere»

NAPOLI – Riferiti dalle cronache di giornali e televisioni, conosciamo uno per uno tutti i dettagli, pur se minutissimi, dell’esito cruento; ma non sappiamo niente, o quasi, dell’incarnarsi giorno dopo giorno, gesto dopo gesto, parola dopo parola della violenza che porterà a quell’esito, chiamato femminicidio. E il merito di «Polvere», lo spettacolo che Saverio La Ruina presenta alla Galleria Toledo, consiste proprio nel fatto che descrive con precisione addirittura chirurgica gli stadi progressivi di tale incarnarsi.
Assai probante appare, nel merito, la sequenza d’avvio. Sono in scena un Lui e una Lei. E mentre Lei si sbraccia leziosa e giuliva sull’onda di «I will survive» cantata da Gloria Gaynor («So che resterò viva / ho tutta la mia vita da vivere»), Lui se ne sta accasciato in terra come un cane bastonato. Sembrerebbe, insomma, che gli tocchi il ruolo della vittima. Ed è appunto quest’immagine ingannevole che, per contrasto, annuncia e sottolinea il vero ruolo di Lui, quello di un carnefice tanto ammantato di debolezze quanto determinato.
Perfetto, quindi, risulta Saverio La Ruina nella parte di Lui, perché, insieme con la grande bravura d’attore, ci mette quel suo aspetto innocuo e quella sua faccia indifesa e dolce: assolutamente spiazzanti e urticanti quando poi, per fare un esempio, diventano la maschera di un autentico terzo grado, fra il crudele e il surreale, che investe Lei a proposito di una sedia che ha spostato da dove stava di solito. «Oggi è la sedia, ma domani è una persona, un uomo, e io ho bisogno di capire se sei una donna affidabile», farnetica Lui con tono perfido e insinuante.
Siamo, allora, di fronte a un testo che adotta con sapienza ed efficacia gli stereotipi dei più consunti luoghi comuni per rovesciarli subito nella paralisi della canonica ideologia maschilista e familista. Lui proclama che «l’amore vince anche la morte» solo per raccontare di come il padre, caduto su una scarpata, si salvò dal gelo notturno grazie ai mutandoni, alla maglia e ai calzettoni di lana con cui lo vestiva d’inverno «quella santa donna» di sua madre.
Così, il tormentone della battuta «Facciamo l’amore e passa tutto» diventa proprio la polvere del titolo: quel velo d’ipocrisia che a poco a poco si stende sui sentimenti della coppia come, davvero, un lenzuolo funebre. E molto brava, accanto a Saverio La Ruina, è anche la coprotagonista Cecilia Foti. Per concludere, uno spettacolo ad un tempo intelligente, illuminante e coinvolgente.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 17 ottobre 2015)

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