La potenza della lingua nella «patria» di Moscato

Enzo Moscato in un momento di «Patria Puttana»

Enzo Moscato in un momento di «Patria Puttana»

BACOLI – Si pone come un prezioso laboratorio linguistico, che compie il lodevolissimo sforzo di opporre al dilagante imbarbarimento e appiattimento della parlata corrente la nobile e creativa vitalità dei dialetti.
Tanto scrissi tre anni fa in merito al «Mirabilis Festival» che, ideato e diretto da Mimmo Borrelli, si svolse nel complesso archeologico delle Terme di Baia e fu subito ucciso, appena nato, dalla cieca latitanza dei finanziamenti pubblici. Adesso valgono, quelle parole, anche per l’«Efestoval», il «Festival dei Vulcani» che Borrelli, non domo, ha ambientato nei luoghi più suggestivi e carichi di miti dei Campi Flegrei.
Non a caso, la chiusura della rassegna, nel Parco Vanvitelliano del Fusaro, è toccata a «Patria Puttana» di Enzo Moscato. Non a caso perché si tratta di uno spettacolo che, accoppiando nel titolo l’allusione al centro concettuale della poetica dell’autore (la «patria») e il personaggio emblematico (la «puttana») che di quella poetica si fa portatore, rappresenta – fra il crudo referto di cronaca, il rassegnato disincanto e l’urlo rabbioso degli esclusi – l’eclatante manifestarsi, per l’appunto, di una lingua non puramente narrativa e connotativa, ma soprattutto e decisamente costitutiva.
Precisamente, siamo di fronte a un collage che assume «Luparella» come catalizzatore dell’intrecciarsi di brani e suggestioni tratti da altri testi quali «Pièce noire», «Rasoi», «Signurì, signurì…», «Rondò», «Little Peach» e «Toledo suite». E ancora una volta, dunque, ci travolge quella tessitura verbale che in «Lingua, carne, soffio» Moscato definì: «sabbia, sabbia mobile, su cui scrivere, di continuo, parole di continuo cancellate».
Torniamo ad imbatterci, in breve, nella scrittura come dannazione e salvezza insieme, con il corollario di una lingua come «peste», infettata da tutti i relitti marcescenti portati a riva (sulla riva della nostra coscienza e del nostro cervello e della nostra quotidianità) dal movimento incessante di quel mare che si chiama vita. Poiché, lo sappiamo, il nuovo può nascere solo dalla contaminazione e dalla corruzione.
Sono in scena lo stesso Moscato e Cristina Donadio, con l’aggiunta di Giuseppe Affinito. E il leitmotiv dello spettacolo, «Sinnò me moro» cantata da Alida Chelli, sembra il riverbero della luna di «Luparella»: «umana, petulante», che entra «in confidenza cu tutto chello ca se perde, cu tutto chello ca va sott’acito dint’all’anema d’ ‘e ccase». È proprio il respiro di questa nostra povera, strana, terribile e meravigliosa vita.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 29 settembre 2015)

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