Quel Tiresia che non sapeva vaticinare

 

Antonio Neiwiller

Antonio Neiwiller

NAPOLI – Forse non è un caso che uno degli spettacoli più belli (se non il più bello in assoluto) di questi ultimi anni sia stato «Titanic the end», riproposto nella Sala Assoli da Salvatore Cantalupo, uno degli interpreti dell’edizione originaria, a vent’anni dalla scomparsa prematura di Antonio Neiwiller. Era uno spettacolo in cui sistematicamente si batteva in breccia la parola come puro parlare, con i fogli scritti (la tirannia del testo!) che si riducevano a fazzoletti utilizzati per detergere il sudore o per salutare partenti diretti chissà dove.
Insomma, la vita che si prendeva la rivincita sul teatro della rappresentazione. Ed oggi – oggi che si celebrano i trent’anni della Sala Assoli, di quell’avamposto della cultura, della fantasia e dell’impegno civile attestato nel degrado dei sentimenti e dei comportamenti detto Quartieri Spagnoli – mi viene da considerare che la capacità principale dispiegata nel dirigere lo spazio in questione da Igina Di Napoli e Angelo Montella è stata una coerenza ideologica, concettuale e programmatica davvero esemplare.
Tutto si tiene, commenterebbero i francesi, nei trent’anni della Sala Assoli. Giacché, tanto per intenderci, il «Titanic the end» di Neiwiller rimanda direttamente a «I sette contro Tebe» che nel 1996 Mario Martone e Andrea Renzi trassero da Eschilo. Verso la fine dello spettacolo la porta della Sala Assoli, ovviamente equiparata a una di quelle della grande rivale di Atene, si apriva e lasciava entrare nella rappresentazione l’urlìo scomposto dei Quartieri, fatto dei motorini a tutto gas e dei richiami sguaiati da un «basso» all’altro.
Parliamo sempre di coerenza. Tiresia – l’indovino cieco che il testo di Eschilo definisce «pastore di uccelli» e che, appunto, da quelli ricava i suoi vaticini, interpretandone i presagi «con gli orecchi e nell’anima» – nello spettacolo di Martone e Renzi tentava, stancamente, di attirare un volatile qualsiasi con un richiamo meccanico: e solo per rinchiuderlo in una gabbietta ad un tempo prosaica e crudele. Si poteva rendere meglio l’odierna impossibilità della tragedia e, con essa, l’obbligo di aprire gli occhi sulla realtà?

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 18 settembre 2015)

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