Una tonnara fatta con le reti della poesia

 

Vincenzo Pirrotta in un momento di «N'gnanzoù»

Vincenzo Pirrotta in un momento di «N’gnanzoù»

BACOLI – Il pregio straordinario di «N’gnanzoù» – lo spettacolo di Vincenzo Pirrotta messo in scena su una piattaforma al centro del lago Miseno nell’ambito di «Efestoval», l’itinerante «Festival dei Vulcani» diretto da Mimmo Borrelli – è che la struttura del testo s’identifica perfettamente con l’ambiente (la tonnara, con le sue «camere» in progressione) che accoglie il plot.
Qui, infatti, siamo di fronte a un gioco di specchi organizzato come quello proverbiale delle scatole cinesi: il «raisi» (il capopesca della tonnara) racconta al «muciariotu» (il tonnaroto che governa la «muciara», ossia la barca del «raisi») della propria vita e delle storie che corrono tra Favignana e Trapani, e le storie raccontate si riflettono nella quotidianità, persino brutale, della fatica durante la mattanza.
D’altronde, niente meglio del teatro, per sua natura attestato sul confine incerto tra la finzione e la verità, avrebbe potuto reinventare e rendere insieme le due dimensioni dell’immaginario e della realtà; e lo fa, nella circostanza, fondendole nel crogiolo di una lingua in pari tempo allusiva e immediata, simbolica e carnale, urticante e tenerissima. E che, naturalmente, non disdegna l’onomatopea: a partire dal titolo, che riproduce il grido lanciato dai pescatori quando tirano su le reti.
S’intende, poi, che questo gioco di specchi coinvolge (ed è un ulteriore scatto del testo) anche il rapporto fra i tonnaroti e i tonni. Sono i sentimenti e le parole degli uomini che intervengono, poniamo, a descrivere il viaggio dei pesci verso il momento della riproduzione che, per essi, coinciderà con quello della fine. Allo stesso modo in cui, tanto per fare un altro esempio, il lamento dei tonni nella camera della morte rimanda a quello della bella che sullo scoglio invoca l’amato perso in mare e questo, a sua volta, coincide con il mormorìo dell’onda.
Accade, dunque, che il «basso» (la puttana del paese) si faccia «alto» (il «raisi» ch’è vivo solo perché quella Bocca di Rosa siciliana gli portò il latte mentre, bambino, era malato di tubercolosi). E adesso è del tutto superfluo insistere sulla bravura nel «cunto» di Pirrotta, degnissimo del suo maestro Mimmo Cuticchio. Lo accompagnano adeguatamente le musiche dal vivo di Mario Spolidoro. E su questo spettacolo, in egual misura forte e dolce, scende infine la benedizione delle parole che al «raisi» ragazzo disse il salinaro malato Turi: «Quannu lu distinu nun t’aiuta dumannacci cunsigghiu a la puisia».
Così il «raisi», che dà la morte ai tonni, ottiene in regalo la vita – il corpo di una fanciulla, «la frischizza di la sò carni» – scrivendo per lei dei versi sulla sabbia: «Taliu a tia n’tà la luna chiara, / e li so raggi parinu chiamariti, Sara».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 18 settembre 2015)

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