La «Maschera» a un Latella
che toglie la maschera a Eduardo

Antonio Latella mentre ritira al Mercadante la «Maschera» per la migliore regia

Antonio Latella mentre ritira al Mercadante la «Maschera» per la migliore regia

NAPOLI – Come sa chi ha la bontà e la pazienza di frequentare questo sito, io non sono mai stato tenero con «Le Maschere del Teatro Italiano», il premio ideato e governato da Luca De Fusco: a causa, soprattutto, dello spirito sciovinistico e, peggio, dello sfacciato «familismo» che lo ispirano e animano. Ma debbo riconoscere che stavolta De Fusco e soci (leggi la «giuria di esperti» che ha scelto le terne dei finalisti) mi hanno lodevolmente sorpreso.
Infatti – se scontati appaiono, poniamo: 1) il premio per il miglior spettacolo a «Lehman Trilogy» di Luca Ronconi, evidentemente dato sull’onda del rimpianto suscitato dalla scomparsa del grande regista; 2) il premio per il miglior autore di novità italiana dato a Stefano Massini, che ha firmato per l’appunto il testo di «Lehman Trilogy» e ha preso il posto di Ronconi alla guida artistica del Piccolo; 3) il premio per il miglior attore protagonista dato a Eros Pagni per lo spettacolo «Il sindaco del Rione Sanità», coprodotto con quello di Genova dallo Stabile di Napoli; 4) il premio per il miglior costumista dato a Maurizio Millenotti per «Il giardino dei ciliegi» diretto dallo stesso Luca De Fusco – di gran lunga meno prevedibile (anche a voler considerare che nella predetta «giuria di esperti» siede fra gli altri Antonio Calbi, direttore di quel Teatro di Roma che ha prodotto lo spettacolo) era il premio per la migliore regia dato ad Antonio Latella per «Natale in casa Cupiello».
Basterebbe riflettere sulla sconvolgente sequenza conclusiva dell’allestimento. Il letto in cui muore Luca Cupiello, assistito da una Concetta in vesti di santa da pittura devozionale, diventa una mangiatoia. E non solo, così, Latella invera il Vangelo – quello, s’intende, di Luca: «E partorì il figliuolo suo primogenito, (…) e lo pose a giacere in una mangiatoia» (II, 7) – ma riproduce e potenzia il dettato dell’ultima didascalia di Eduardo: che dice come lo sguardo di Luca Cupiello morente si perda nella visione di «un Presepe grande come il mondo» e di «un Gesù Bambino grande grande». Latella, puramente e semplicemente, identifica Luca Cupiello con quel Bambino; e, l’ennesima folgorante invenzione, ricopre interamente il suo corpo, nella mangiatoia, con un tappeto di foglie di lattuga a disposizione di un bue e di un asinello veri.
In breve, non posso che ripetere adesso ciò che scrissi in sede di recensione: non ho mai visto un allestimento di commedie di Eduardo così radicalmente innovativo e, tuttavia, così fedele al testo originale. Voglio dire questo, in poche parole: qui vien fuori tutta la ferocia che in precedenza non era mai salita in superficie (durante la sequenza citata Tommasino compie addirittura il gesto di soffocare il padre con un cuscino!) e, contemporaneamente, arrivano puntualissime tutte le risate «scritte a copione».
Insomma, la «Maschera» data ad Antonio Latella va ben oltre il valore contingente che può avere quel premio in sé: del tutto inopinatamente, costituisce un sacrosanto sussulto di coscienza, da parte dell’«establishment», rispetto alla retorica insopportabile che continua a circondare l’opera di Eduardo De Filippo, impedendone la necessaria rilettura critica alla luce dei problemi e delle tensioni culturali dell’oggi. E certo, so benissimo che una rondine non fa primavera, e che molto improbabilmente tale sussulto di coscienza si tradurrà in scelte operative che smentiscano la riduzione di Eduardo a una sorta di novello San Gennaro. Ma, in ogni caso, meglio l’una volta tanto che il mai.
Per quanto, poi, mi riguarda personalmente, il premio dato a Latella mi fa piacere perché fui io, in epoca non sospetta, a spingere il regista di Castellammare ad affrontare finalmente il teatro di Eduardo, apparentemente lontanissimo anni luce dai suoi interessi e dalle sue inclinazioni drammaturgiche. E non solo. Ebbi con Latella più di una conversazione in cui gli esposi le mie opinioni su quel teatro in generale e su «Natale in casa Cupiello» in particolare. Tanto che – al termine dell’intervista che gli feci al Gambrinus in vista del debutto del suo spettacolo all’Argentina di Roma (fu pubblicata da «Il Mattino» il 5 novembre dell’anno scorso, quasi uno scoop) – Antonio mi disse: «In scena vedrai te stesso». E Antonio Calbi, accogliendomi per l’appunto all’Argentina il 3 dicembre, la sera della «prima», aggiunse: «Ho saputo che in questo “Natale” c’è il tuo zampino».
Lo racconto non per cedere a un conato di stupida e inutile vanagloria, ma perché l’episodio rappresenta uno dei casi – ormai rarissimi – in cui è tornato a manifestarsi un prezioso scambio intellettuale fra il regista e il critico. E anche e specialmente per questo acquista merito la scelta compiuta dai giurati de «Le Maschere del Teatro Italiano».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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