Adesso nella via Gluck
ci sono gli «hikikomori»

Anthony Foladore in una scena di «Notre peur de n'être»

Anthony Foladore in una scena di «Notre peur de n’être»

VENEZIA – «Ha rinunciato al sole, i suoi occhi l’hanno dimenticato. A volte la notte esce, cammina a piedi nudi per le strade. Osserva la città, come se i suoi abitanti fossero scomparsi. È solo al mondo, nella città fantasma, la città in cui poteva correre».
Ecco, mi sembra questa la battuta decisiva di «Notre peur de n’être (La nostra paura di non essere)», lo spettacolo di Fabrice Murgia presentato nel Teatro alle Tese dell’Arsenale nell’ambito della Biennale Teatro. Perché costituisce il ritratto preciso del personaggio centrale qui chiamato in campo dal trentaduenne autore e regista belga, Leone d’Argento alla Biennale 2014: il personaggio chiamato in Giappone «hikikomori», ossia il giovane iperconnesso che vive nel e del rifiuto di ogni contatto con la realtà a lui esterna.
Lo affiancano, nello spettacolo in questione, altri personaggi murati in una solitudine non dissimile: un vedovo perennemente aggrappato al cellulare, Sarah, che ha studiato quello che chiamano «Comunicazione» ma non riesce a stabilire rapporti col prossimo, e la madre dello stesso Hiki, appunto il protagonista. E quale sia il «non essere» che impaurisce questi personaggi viene riassunto da Hiki con icastica linearità: «Mi dispiace di essere fuggito. Non sapevo dove andare. Non ho boschi in cui essere solo. Sono fuggito all’interno. Oggi non esco. Perché fuori fa freddo. Perché fuori non puoi dire: “Non lo so”. Non si può dire: “Vorrei avere il tempo per rifletterci”».
Questo discorso Hiki lo rivolge alla madre, che naturalmente non capisce le ragioni che hanno indotto il figlio a chiudersi nella stanzetta dell’infanzia. E lei gli risponde canticchiando per intero, fra lacrime e singhiozzi, «Il ragazzo della via Gluck»: è, insieme, la manifestazione di un’utopia disperata, quella del ritorno all’innocenza, e la presa di coscienza, sotto specie di simbolo, dello scarto inesorabile determinatosi fra la vita vera, giusto quella del «fuori», e la realtà virtuale della rete.
Infatti, nello spettacolo di Murgia il boccascena diventa la cornice dello schermo del pc e la regia procede, in breve, come la freccetta guidata dal mouse. E assolutamente funzionale a un quadro del genere risulta la prova degl’interpreti: Anthony Foladore (Hiki), Nicolas Buysse (il vedovo), Clara Bonnet (Sarah), Ariane Rousseau (la madre di Hiki) e Cécile Maidon e Magali Pinglaut (due angeli a loro volta poco angelici).
Ma, al di là degli aspetti tecnici dell’allestimento, vanno poste due obiezioni: che attengono l’una alla forma, piuttosto datata, e l’altra al contenuto, che si riferisce a una solitudine individuata sul mero piano sociale (segnatamente quella dei giovani della classe media) senza riuscire ad attingere il livello della solitudine in quanto dimensione esistenziale.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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